Che cosa sappiamo dell'incontro fra Xi Jinping e Vladimir Putin

L’incontro Xi Jinping-Vladimir Putin si farà? Sì, suggeriscono le varie agenzie di stampa e le indiscrezioni laddove gli organi ufficiali del Partito comunista nicchiano. Un incontro fisico, in carne e ossa, nell’ambito del viaggio fra Uzbekistan e Kazakistan del presidente cinese. Che i pesi massimi del Dragone fossero pronti a lasciare i confini nazionali, d’altronde, lo avevamo scritto giorni fa descrivendo la visita di Li Zhansu in Russia.
Xi, dallo scoppio della pandemia, ha preso parte ai vari vertici mondiali collegandosi via video. Poco, troppo poco per una nazione che ambisce a creare un nuovo ordine globale. L’unica eccezione è stata una visita mordi e fuggi a Hong Kong, città semi-autonoma sempre più nell’orbita di Pechino fra violazioni dei diritti umani e leggi restrittive. Stando ai media russi, Xi incontrerà Putin in Uzbekistan, in occasione del forum della Shanghai Cooperation Organization. Putin, dal canto suo, aveva incontrato l’omologo cinese a Pechino, in gennaio, a un niente dall’invasione dell’Ucraina. Quella volta, fu sancita l’amicizia senza limiti fra i due Paesi. Tant’è che la Cina, da allora, si è rifiutata di criticare la Russia. Evitando di condannare l’invasione dell’Ucraina e, sul fronte opposto, accusando apertamente Washington e la NATO di aver provocato il conflitto.
Un'alternativa alla NATO
Xi, alle prese con un’economia azzoppata dalla politica zero-COVID e dai continui lockdown lampo pronunciati per fronteggiare ogni accenno di focolaio, è vicino, vicinissimo dall’ottenere un terzo mandato come leader del Partito comunista. Una rottura con il passato e con la regola dei due mandati. Avendo il controllo dell’informazione, Xi non teme chissà quali terremoti interni. Il malcontento, tuttavia, complice il rallentamento dell’economia e le misure draconiane imposte per contrastare la pandemia, esiste. Ed è riuscito a infilarsi nei (pochi) buchi lasciati dalla censura.
Non solo, per una Cina che (in teoria) punta alla pace e all’armonia i rapporti ai minimi storici con Stati Uniti, Australia e una buona parte dell’Europa non sono esattamente il biglietto da visita ideale da presentare al Congresso del Partito il prossimo ottobre. Rapporti deterioratisi ancora di più dopo le esercitazioni attorno a Taiwan.
L’occasione per rimettere il naso fuori dai confini cinesi è data, appunto, dal forum della Shanghai Cooperation Organization nota anche con l’acronimo SCO, un’organizzazione economica, politica e di sicurezza che comprende la Russia, molte ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, l’India e il Pakistan. La SCO ha permesso alla Cina di «invadere» quello che, storicamente, era il giardino di Mosca. E, ancora, di mostrare all’Occidente e alla NATO che esistono, possono esistere pure altre alleanze.
Secondo gli analisti, un incontro con Putin verrebbe ovviamente visto di cattivo occhio dalle democrazie occidentali mentre, in Cina, rafforzerebbe l’immagine del politico duro e puro capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti
Il G20 e il Papa
Xi e Putin, ha rivelato alla TASS l’ambasciatore russo in Cina, Andrei Denisov, si incontreranno a Samarcanda, in Uzbekistan, il 15-16 settembre. Nei piani del leader cinese dovrebbe esserci anche la partecipazione, in novembre, al G20 di Bali, in Indonesia. L’occasione giusta per ribadire al mondo che la Cina resta la Cina, ovvero la seconda economia più grande a livello globale. E che svolge un ruolo di rilievo, diciamo pure essenziale, nelle catene di approvvigionamento. Vestiti, telefoni, elettrodomestici e via discorrendo. Xi, infine, dovrebbe pure partecipare a un incontro in Thailandia agenda permettendo.
Detto dell’Uzbekistan, curiosamente in Kazakistan potrebbero incrociarsi due entità più o meno separate: Papa Francesco e Xi. La Cina aveva espulso tutti i sacerdoti stranieri poco dopo l’arrivo dei comunisti al potere, nel 1949, e continua a non avere rapporti formali con il Vaticano. Oltre tre decenni fa, almeno, il Partito aveva posto fine al bando della religione. Xi, però, aveva dichiarato che le religioni in Cina devono essere «cinesi» e, quindi, libere da influenze straniere. Devono, ovviamente, essere integrate nella società socialista e porsi sotto la guida del Partito per «servire lo sviluppo della nazione». Uno strumento di nazionalizzazione, insomma. L’accordo sulle nomine dei vescovi, firmato nel 2018 dal Vaticano e dal governo cinese e rinnovato due anni dopo, quantomeno ha favorito la posizione di alcuni vescovi in passato costretti alla clandestinità. Ma il regime, dicevamo, tratta comunque le religioni come istituzioni proprie e i ministri come funzionari pubblici.