Sovranità

Ciberguerra, i dati come le armi

Dopo l'attacco russo Ursula von der Leyen mette in guardia l'Europa: «Abbiamo bisogno di tenere sotto controllo il lato oscuro del digitale» – Determinante è riprendere il controllo delle tecnologie critiche – Andrea Rizzoli (Dalle Molle): «Il conflitto ha accelerato la consapevolezza del problema»
Dario Campione
22.04.2022 06:00

Il gesto quotidiano cui nessuno sfugge - accendere il computer o fare una ricerca sul proprio telefono cellulare - stringe sempre di più la corda al collo della nostra libertà. Soprattutto in tempi di guerra. Non sembri un’esagerazione: ogni singolo click immette nuove informazioni nelle banche dati delle aziende che controllano la Rete. Accrescendo il loro «dominio». Come ha affermato ancora di recente a Davos la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, «abbiamo bisogno di tenere sotto controllo il lato oscuro del digitale». Dobbiamo cioè «limitare l’immenso potere delle Big Tech», strappare di mano a una «oligarchia» il processo di «regolamentazione del nostro futuro». Una questione, ha sottolineato von der Leyen, «che riguarda i popoli sovrani, i Governi, le imprese». L’obiettivo apertamente dichiarato dall’Europa comunitaria, che su questo versante ha deciso di investire 400 miliardi di euro - un quinto di tutto il programma Next Generation EU -, è di riconquistare, almeno in parte, la propria «sovranità digitale»: Bruxelles intende riprendersi, il più possibile, il controllo di alcune tecnologie critiche come Intelligenza Artificiale (AI), microprocessori, reti 5G, cloud e cibersicurezza.

La dipendenza

Una questione che riguarda da vicino anche la Svizzera, la cui dipendenza da infrastrutture immateriali possedute e controllate da una manciata di giganti della tecnologia (con sede negli Stati Uniti o in Cina) non è minore da quella del resto d’Europa. «Combattere l’oligarchia dei dati è possibile - dice al Corriere del Ticino Andrea Rizzoli, direttore dell’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale (USI-SUPSI) -, ma questa necessaria democratizzazione non può che passare attraverso le istituzioni, gli Stati, i quali dovranno forzare soprattutto la ricondivisione dei dati. Ora, la questione è semplice: in che modo Paesi piccoli, qual è il nostro, possono imporre determinate scelte a giganti del calibro di Google o Apple? Detto in altri termini: come è possibile realizzare la sovranità digitale in Svizzera? Personalmente, credo sia difficile farlo operando al di fuori di una concertazione molto stretta con l’Unione europea, di cui siamo partner di fatto. Per questo penso che la Confederazione non possa stare a guardare l’iniziativa di Bruxelles ma debba, in qualche maniera, parteciparvi. L’industria e la ricerca svizzere che sviluppano software e lavorano sull’intelligenza artificiale devono poter dire la loro».

Potere negoziale

Anche lavorando di concerto con l’Unione dei 27, in ogni caso, l’obiettivo della sovranità digitale non è affatto scontato. Secondo Mauro Gilli, ricercatore del Centro studi sulla sicurezza del Politecnico di Zurigo, il potere negoziale verso le Big Tech è comunque limitato. «Nell’era industriale contavano le economie di scala, nell’era digitale i parametri sono completamente diversi. Ciò che vediamo oggi è il risultato di 20 anni di investimenti, cui si aggiunge un incessante sviluppo organizzativo e di conoscenze specifiche. Per raggiungere il livello dei grandi attori della Rete non basterebbero nemmeno impieghi iniziali enormi. Prendiamo l’esempio del cloud, la conservazione dei dati nella “nuvola” digitale: Jeff Bezos, con Amazon, ha iniziato a occuparsene nel 2002, raggiungere quel grado di evoluzione è praticamente impossibile». Senza contare, aggiunge Gilli, che Google, Apple o la stessa Amazon «non competono tra loro in ogni singolo elemento; sono, piuttosto, specializzati, ciascuno nel proprio settore». Chi volesse rivaleggiare dovrebbe quindi moltiplicare i propri sforzi e i propri investimenti. Senza avere, peraltro, alcuna certezza né garanzia di successo. Un dato solo fa capire meglio di che cosa si parla: le cinque più grandi società tecnologiche statunitensi - Amazon, Google, Facebook, Apple e Microsoft - valgono più dell’intero mercato azionario europeo. Nel primo anno di pandemia, il 2020, le loro entrate combinate sono cresciute di un quinto, arrivando a 1,1 trilioni di dollari. Sempre durante la pandemia, la loro capitalizzazione è salita a 8 trilioni di dollari. Dal 2017 al 2021 hanno inoltre investito circa 20 miliardi l’anno in ricerca e sviluppo e infrastrutture critiche come il cloud, appunto, e i centri di raccolta dei dati. Tendenze del tutto simili sono state registrate in Cina con Alibaba e Tencent, aziende i cui fatturati nel 2020 avevano superato, rispettivamente, i 700 e i 500 miliardi di yuan.

Maggiore consapevolezza

La questione è serissima. Quasi vitale per le democrazie liberali. «Il conflitto in Ucraina ha accelerato la consapevolezza del problema - dice ancora Rizzoli -. Quando gli equilibri geopolitici improvvisamente si alterano ed esplodono le tensioni, ci rendiamo conto di quanto pesi la dipendenza, anche soltanto parziale, in settori strategici. E ciò che vale per le merci, per le fonti energetiche o per i prodotti agricoli, vale anche per i beni immateriali: dati, algoritmi, proprietà intellettuali. La ciberguerra può arrivare da ogni parte. E qualunque Paese potrebbe essere interessato alle informazioni detenute dalla Svizzera». Avere «strategie di protezione per ammortizzare eventuali shock» è quindi indispensabile. Ma non basta. Bisogna contrastare, fin dove possibile, ogni singola posizione dominante. Soprattutto sul versante dell’accaparramento dei dati, i quali sono «il vero tesoro dell’intelligenza artificiale, la benzina di ogni algoritmo», aggiunge Rizzoli. Nonostante la disparità delle forze in campo, qualcosa si può fare. «Forme di “contropotere” - conclude Mauro Gilli - sono possibili. Ad esempio, sviluppare, come fa la Svizzera, poli tecnologici di ricerca e sviluppo che attraggano le aziende e le convincano a insediarsi sul territorio. E poi, stringere le maglie della regolamentazione: le autorità antitrust possono circoscrivere àmbiti di attività, individuare limiti e imporre determinati comportamenti». 

In questo articolo: