Pandemia

COVID, perché la Corea del Nord ne parla solo adesso?

Dopo due anni e mezzo Pyongyang ha annunciato i primi casi: il Paese, finora, era stato refrattario ai vaccini e ha strutture mediche arretrate
Marcello Pelizzari
13.05.2022 17:00

Due anni e mezzo, circa. Tanto è passato prima che la Corea del Nord, finora refrattaria ai vaccini e convinta, bontà sua, che sarebbe stata sufficiente l’ideologia per sconfiggere il virus, annunciasse i primi casi di COVID-19. Un’ammissione sorprendente. Al punto che, molti, si sono posti la domanda: perché adesso?

I numeri

Il timore, beh, è legato alle condizioni del Paese e alle sue strutture mediche. Ma anche, se non soprattutto, all’assenza di preparati anti-coronavirus. Parliamo, in tutto, di 26 milioni di persone. E della possibilità, nemmeno troppo remota, che si sviluppino nuove varianti.

L’organo di stampa ufficiale KCNA, per il momento, ha confermato 18 mila contagi e 6 decessi. Di più, 350 mila cittadini sono stati colpiti da febbre alta e 187 mila sono in isolamento e in cura.

Si tratta, tuttavia, di dati non verificabili. Pyongyang, quando la Cina annunciò di avere un problema, chiuse immediatamente i confini. Interrompendo, fra l’altro, l’importante flusso economico, per non dire vitale, con Pechino. Nessuno, da allora, di fatto è entrato nel Paese. Non con regolarità. Né giornalisti, né tantomeno operatori umanitari o sanitari stranieri.

Gli indizi per un disastro, ad ogni modo, ci sono tutti: la citata assenza di vaccini, la povertà diffusa, delle strutture mediche arretrate e, ancora, una limitata capacità di test.

Ma perché, dicevamo, all’improvviso la Corea del Nord ha aperto le porte al virus? Riformuliamo: perché, dopo averne quasi negato l’esistenza, ora ne parla? Le tesi sono tante. Molte contrastano pure fra loro. C’è chi, ad esempio, pensa che il lockdown appena annunciato, e varato, non sia altro che un tentativo, estremo, di controllare ulteriormente la popolazione.

L'emergenza «più grave»

Le autorità coreane, giovedì, hanno parlato dell’emergenza più grave dello Stato. Il nemico, ora, ha assunto i nomi e le sembianze della variante Omicron BA.2. Il linguaggio usato, però, era vago, diciamo impreciso, sicuramente non medico né scientifico. Dalla fine di aprile, infatti, si sarebbe propagata una non meglio definita febbre.

Difficile saperne di più, anche perché – appunto – la capacità di test della Corea del Nord è molto, troppo limitata. L’Organizzazione mondiale della sanità, al riguardo, ha detto che dall’inizio della pandemia Pyongyang ha riportato i risultati di 64.200 tamponi. Poci, pochissimi. La Corea del Sud, a titolo di paragone, finora ha eseguito 172 milioni di test.

L’Associated Press fa risalire l’inizio dei guai a una parata militare del 25 aprile. Quella, per intenderci, in cui il leader Kim Jong Un, l’uomo che sembra uscito da un filmaccio d’azione anni Ottanta, ha parlato di armi nucleari. Ad ascoltarlo c’erano migliaia e migliaia di persone. Omicron, per contro, potrebbe avere trovato un varco lungo il confine con la Cina.

L'assistenza cinese

La Corea del Nord, sostengono gli esperti, avrà presto bisogno di aiuti. Medicine e vaccini, nello specifico. Altrimenti, il COVID potrebbe fare male. Molto male, a maggior ragione se pensiamo che la popolazione è in gran parte povera. Tradotto: la percentuale di persone vulnerabili, dal sistema immunitario compromesso, è elevata.

La Cina, in queste ore, ha subito fatto sentire il proprio peso e la propria influenza, affermando che Pechino e Pyongyang «hanno una lunga tradizione di assistenza reciproca». Non solo, il Dragone si impegnerà a sostenere il vicino e a cooperare «nella lotta contro il COVID-19».

Il punto, va da sé, è proprio la vaccinazione. Omicron, nei Paesi più avanzati, ha prodotto un numero decisamente minore di ricoveri e decessi rispetto alle ondate precedenti. Grazie, manco a dirlo, ai preparati anti-coronavirus come all’efficienza del personale medico.

Se Omicron aveva un tasso di mortalità dello 0,1% in Corea del Sud, ribadiscono gli specialisti, a Nord potrebbe raggiungere l’1%.

Lockdown lungo o no?

La reazione delle autorità, per forza di cose, è stata draconiana. Ancora più draconiana rispetto alla Cina, che da settimane e settimane sta costringendo i propri cittadini nelle abitazioni. Il lockdown è stato esteso a tutto il Paese. Ogni unità lavorativa e abitativa è stata separata.  

Eppure, emergerebbero anche segnali di – leggiamo convivenza con il virus. Kim, ad esempio, non ha fermato l’edilizia né altri progetti statali già programmati. Nel bailamme generale, il Paese ha pure testato tre missili balistici. Della serie: d’accordo la pandemia e l’emergenza, ma i test continuano e continueranno ancora.

Difficilmente, dunque, il lockdown super duro potrà essere sostenuto sul lungo periodo. Anche perché la Corea non è la Cina: la sua economia è fragilissima e un confinamento di massa, con il passare delle settimane, potrebbe indebolirsi ulteriormente.  

La convivenza

E gli aiuti esterni? Detto della Cina, che si è più o meno offerta, la Corea del Nord in passato aveva puntualmente respinto vaccini, pillole anti-COVID e altre forniture mediche.

L’ideologia, ancora, rischia di scontrarsi con le necessità e, oseremmo dire, il buonsenso. Se in passato Pyongyang si era rifiutata di collaborare con gli altri Paesi, difficilmente accetterà a questo giro a detta di molti. Preferendo opzioni più terre-à-terre.

Può darsi che la Corea chiederà vaccini ma solo per le fasce più anziane della popolazione. O, ancora, che il suo leader sia disposto ad accettare un certo numero di decessi pur di non «disturbare» i suoi obiettivi economici e, soprattutto, militari. Il test di giovedì, in fondo, va proprio in questa direzione. L’immunità, dunque, verrebbe raggiunta tramite infezione. Per un leader che crede di vivere in un filmaccio d’azione anni Ottanta, può perfino sembrare un’opzione plausibile.

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