L'approfondimento

Da Michail Gorbaciov a Vladimir Putin: come nasce la Russia di oggi

Riavvolgiamo il nastro della storia e torniamo al Natale del 1991, quando il mondo apprende che l'Unione Sovietica non esiste più
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Luca Lovisolo
03.02.2024 21:00

Il giorno di Natale 1991 il mondo apprende che l’Unione Sovietica non esiste più. Negli articoli dell’anno scorso, dedicati all’Ucraina, avevamo accennato alla fine dell’URSS. Un momento di grandi speranze: si dissolve lo spauracchio della Terza guerra mondiale e finisce la divisione dell’Europa. «Abbiamo sbucciato la pera», dice con sollievo l’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl: un proverbio che significa «ce la siamo cavata», quando si accorge che la fine disordinata del Muro di Berlino non causa una catastrofe, ma apre un futuro di opportunità.

A Mosca, però, le speranze durano poco. Dopo due versioni dello zarismo, quella imperiale e quella comunista, Vladimir Putin ne instaura una terza, la sua. Oggi il mondo si dibatte in una contrapposizione peggiore della Guerra Fredda. Mai, dopo il 1945, la guerra vera, di armi e distruzione, era stata così vicina a noi come adesso, in Ucraina.

Cominciamo un nuovo cammino

Avviamoci su un nuovo cammino, quest’anno, attraverso il primo decennio della Russia post-sovietica, nata con il popolo che inneggia a Boris Eltsin e alla libertà, oggi scomparsa. Una stagione essenziale per capire il presente. Comincia già durante la Perestrojka di Gorbačëv, se cerchiamo una data-simbolo, con l’elezione del Congresso dei deputati del popolo, l’istituzione più simile a un Parlamento mai esistita nella storia russa e sovietica. Una «società civile» di attivisti, uomini di cultura e persino dissidenti accede per la prima volta al potere, monopolizzato sino ad allora dai gerontocrati del Partito Comunista. Dal 25 maggio 1989 i sovietici si attaccano a radio e TV per seguire le sedute del nuovo Congresso. Emblematico di quel momento è il celebre scienziato dissidente e premio Nobel per la pace Andrej Sacharov. Gorbačëv gli telefona di persona per dirgli che il suo esilio è finito. Viene eletto deputato al Congresso, ma ne diventa vittima. Inesperto di politica, alla prima sessione sfora nei tempi d’intervento, costringendo Gorbačëv a zittirlo tra la noia dei deputati; risponde balbettando, quando lo accusano di denigrare l’esercito sulla sconfitta in Afghanistan. Il suo discorso per la seconda sessione del Congresso, a dicembre, resta una bozza. Umiliato, Sacharov muore d’infarto due giorni dopo l’apertura dei lavori. La sua storia è una triste premonizione delle debolezze dell’impegno civile nella Russia di oggi.

Un decennio russo che ruota intorno a un protagonista, Boris Eltsin, ma pullula di mille attori. Eltsin non giunge nuovo, in politica. A sancirne il ruolo che corona la sua vita, però – primo capo di Stato democraticamente eletto in tutta la storia russa – è il fallito golpe del 19 agosto 1991. Il colpo di Stato affonda le radici nel tentativo di Michail Gorbačëv di mantenere unita l’Unione Sovietica, riformarne l’economia e la struttura. È bene ricordarlo, perché troppo in fretta si ricorda in Gorbačëv colui che causa la fine dell’URSS. Non è questo il suo ruolo. Gorbačëv lavora fino all’ultimo per rifondare e conservare l’Unione. Se ne va quando il suo progetto fallisce.

Il progetto della nuova Unione Sovietica

Leggere il trattato dal quale sarebbe dovuta nascere la nuova Unione Sovietica di Gorbačëv rivela la cruda realtà di quel tempo. I 26 articoli del testo giocano d’equilibrio fra la volontà di mantenere il legame fra le repubbliche sovietiche e le spinte delle repubbliche stesse ad abbandonare ogni dipendenza da Mosca. Se fosse stato approvato, il trattato avrebbe dato vita una confederazione fra «Stati sovrani». Non sarebbe neppure cambiata la sigla: da URSS «Unione delle repubbliche socialiste sovietiche» a «Unione delle repubbliche sovrane sovietiche». Dietro la parola «sovranità» si cela l’ipocrisia che appanna tutta la storia sovietica. Anche prima, all’articolo 15 della Costituzione (1974), l’URSS tutelava «i diritti sovrani delle Repubbliche». Nel nuovo trattato c’è una novità, però: le Repubbliche sarebbero state «membri a pieno diritto della comunità internazionale». Stati indipendenti, di fatto. Chi avrebbe comandato, allora: Mosca o le capitali delle Repubbliche?

L’elaborazione del trattato si trascina per mesi, l’ultima versione esce sulla Pravda il 15 agosto 1991. La firma ufficiale è fissata il 20 agosto.

Si accende la miccia del colpo di Stato

Sulla carta, la nuova Unione segna la sconfitta dell’apparato della vecchia URSS. Servizi segreti, ministeri, esercito e infrastrutture centrali diventano marionette guidate dalle riottose capitali delle Repubbliche. Alcuni dirigenti gradiscono, altri temono che sia solo apparenza, ma molti intuiscono che è la fine del loro sistema di potere. Se prima era Mosca a comandare su tutti, nella nuova URSS sembra che tutti comanderanno su Mosca. È la miccia del colpo di Stato. A fine luglio, a Novo Ogarëvo, si tiene un’ultima riunione per definire il trattato. Vi partecipano Gorbačëv, Eltsin e Nursultan Nazarbaev, leader del Kazakstan. La racconta Eltsin in Zapiski Prezidenta, uno dei suoi tre libri di memorie; con qualche differenza ne scrive anche Gorbačëv nelle sue. Senza mezzi termini, all’incontro Eltsin dice che la nascita della nuova Unione Sovietica deve comportare la sostituzione di tutti i dirigenti. Chi può credere al cambiamento, se gli uomini al potere restano gli stessi, dopo gli scontri etnici che avevano messo a ferro e fuoco l’URSS nei mesi precedenti? Gorbačëv nicchia, poi si convince. La sostituzione dei dirigenti dovrà avvenire subito dopo la firma del trattato.

L’incontro è riservato, Eltsin teme di essere spiato e vuole uscire a discutere sul balcone. La trascrizione abusiva dell’incontro sarà trovata negli anni successivi, secondo Eltsin, ma non tutti gli storici concordano su questo punto. Comunque sia andata, resta il fatto che il 19 agosto, un giorno prima della firma del trattato, proprio gli uomini nominati in quell’incontro come candidati al siluramento sferrano il colpo di Stato, per impedire la riforma. Il golpe proietta in primo piano Boris Eltsin: si deve in buona parte alla sua resistenza, se fallisce e i responsabili vengono arrestati. Gorbačëv torna in sella, ma non conta più nulla. Il trattato per la nuova Unione Sovietica non si firma più. L’otto dicembre Russia, Ucraina e Bielorussia costituiscono la Comunità degli Stati indipendenti. La vecchia URSS, svuotata di senso, si spegne due settimane dopo.

Un decennio di speranze

La Russia attraversa barcollando il decennio che segue; le sue speranze cadono quando Boris Eltsin, deluso e malato, nel discorso di Capodanno 2000 cede il passo a uno sconosciuto Vladimir Putin. Per capire la Russia di oggi bisogna ripartire da quegli anni. Torniamo al 25 dicembre 1991, allora. In Unione Sovietica è un mercoledì qualunque, il Natale ortodosso cade il 7 gennaio. Gorbačëv fa un giro di telefonate per congedarsi dai leader mondiali. L’interprete inglese del Cremlino, Pavel Palažčenko, ricorda quella con George Bush padre, allora presidente degli Stati uniti: «Gorbačëv disse a Bush: la Russia non avrà vita facile, adesso sostenete la Russia».

Al Cremlino arriva la regista televisiva Kalerija Kislova. Racconta: «Seppi che dovevamo andare in diretta, Gorbačëv avrebbe firmato le dimissioni dalla carica di presidente. Nell’aria c’era una certa ansia. Mi fecero entrare nel suo ufficio. Era turbato, ma allo stesso tempo concentrato. Gli aveva appena telefonato la moglie, Raissa, qualcuno le aveva detto che quel giorno dovevano lasciare l’appartamento presidenziale. Gli dissi che lo avrei accompagnato alla stanza in cui era stata preparata la diretta. Quando entrammo, vidi che c’erano già moltissime telecamere. Lui mi chiese: ma come faccio a sapere quando devo cominciare? Gli dissi di guardare l’operatore della telecamera al centro, avrebbe dato il segnale, appena messo in onda».

Certamente molti errori si potevano evitare, molte cose si potevano fare meglio, ma sono certo che prima o poi i nostri popoli vivranno in una società prospera e democratica. Auguro a tutti voi ogni bene
Michail Gorbačëv

Il saluto e le bandiere

Mentre attende il segnale, Gorbačëv sfoglia nervosamente le carte del suo discorso. La diretta inizia, l’ultimo leader dell’URSS parla, ma il tono è diverso da quello dei discorsi entusiasti, a braccio, degli anni ruggenti. Legge parola per parola, talvolta esita.

«Lascio il mio posto di presidente dell’Unione Sovietica. Prendo questa decisione per ragioni di principio […]. Mi sono sempre espresso con forza a favore dell’autonomia e dell’indipendenza dei popoli sovietici, per la sovranità delle Repubbliche, ma anche per la conservazione dello Stato dell’Unione sovietica […]. Le cose sono andate diversamente. Ha prevalso la linea dello smembramento del Paese e della divisione dello Stato. Con questo io non posso essere d’accordo. […] Lascio il mio posto con angoscia, ma anche con speranza, con fiducia in voi, nella vostra saggezza e forza d’animo. […] Siamo eredi di una grande civiltà. Da tutti e da ciascuno, ora, dipende che essa si esprima in una vita nuova, moderna e dignitosa. […] Certamente molti errori si potevano evitare, molte cose si potevano fare meglio, ma sono certo che prima o poi i nostri popoli vivranno in una società prospera e democratica. Auguro a tutti voi ogni bene».

Sul Cremlino viene ammainata la bandiera sovietica e issata quella russa. A dare l’ordine, mentre lui sta ancora parlando in TV, racconta Gorbačëv, è Boris Eltsin.

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