Il punto

Fra Cina e Taiwan non ci sono solo venti di guerra

Le tensioni di questi giorni non cancellano (per ora) i rapporti economici fra Pechino e Taipei, sebbene l'isola da tempo stia cercando di diversificare i suoi partner
Marcello Pelizzari
12.08.2022 12:00

Le manovre militari attorno a Taiwan sono finite. Di riflesso, dopo il pugno la Cina sembrerebbe (di nuovo) in vena di carezze. Lo ha fatto capire Pechino, quantomeno, attraverso la pubblicazione di un libro bianco. Nel quale viene ribadita la missione storica del Partito, riunire l’isola al resto del Paese. Anche con la forza, in ultima istanza, ma preferibilmente in maniera «pacifica» e, in particolare, attraverso incentivi economici. «Siamo una sola Cina e Taiwan fa parte della Cina», si legge nel testo. Ma di che cosa si tratta, essenzialmente?

Le sanzioni

La Cina, da tempo, ha implementato quello che potremmo definire fattore economico nella sua strategia di (ri)conquista. Lo scorso 3 agosto, all’indomani dell’arrivo della speaker della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taipei, Pechino aveva varato sanzioni nei confronti di Taiwan. Sanzioni che, leggiamo, avevano un valore più che altro simbolico. Non punitivo, insomma.

Nello specifico, la Cina aveva sospeso l’importazione di alcuni pesci poiché nell’imballaggio erano state trovate tracce di coronavirus. Lo stesso dicasi per alcuni agrumi, complice la presenza di una cocciniglia nociva oltre a livelli di pesticidi giudicati eccessivi. In passato, invece, misure del genere avevano riguardato l’ananas. Niente di nuovo, dunque: Pechino, diciamo spesso e volentieri, blocca prodotti alimentari con la scusa che non rispettano gli standard sanitari del Paese. Secondo gli esperti, è una strategia che consente a Xi Jinping di aumentare il consenso interno, facendo capire alla popolazione che il Partito è sempre attento e vigile. E, soprattutto, non si fa fregare.

Diverso, per contro, l’annuncio del ministero del Commercio cinese, che dal canto suo ha sospeso l’esportazione di sabbia verso Taiwan. Parliamo di sabbia di quarto frazionata, utilizzata da Taipei per produrre semiconduttori: il prodotto di punta dell’economia taiwanese.

L'interdipendenza

L’attuale impasse e le forti pressioni cinesi, ad ogni modo, non cancellano né sminuiscono la forte interdipendenza fra Pechino e Taipei. Storicamente, la Cina può considerarsi il principale partner di Taiwan. Lo scorso anno, ad esempio, quasi la metà delle esportazioni taiwanesi (parliamo del 42%) aveva quale destinazione la Cina. Analogamente, il 22% delle importazioni dell’isola è legato a Pechino.

Taiwan, alla Cina, fornisce soprattutto semiconduttori. Essenziali, senza entrare troppo nel merito tecnico, nell’evitare il surriscaldamento di computer e smartphone. È, dicevamo, la specialità della casa a Taipei, sebbene Pechino stia recuperando terreno a grande, grandissima velocità. Libération, in questo senso, ricorda come nel 2021 le catene del valore di Apple – ovvero tutte le aziende sollecitate nel confezionare un determinato prodotto – fossero presenti più aziende cinesi che taiwanesi.

I numeri

Business is business, verrebbe da dire. Detto altrimenti: da un lato le tensioni, come il rischio che sfocino in un vero e proprio intervento militare, dall’altro gli investimenti. Massicci, anche. Quelli di Pechino a Taiwan, nel 2021, sfioravano i 6 miliardi di dollari. Sul fronte opposto, Taipei ha investito a lungo in Cina. Di più, quando il Dragone aprì al capitale straniero gli imprenditori di Taiwan furono i primi a fare la fila. Parliamo degli anni Ottanta. In totale, tra il 1991 e il 2021 Taiwan ha investito 193,5 miliardi di dollari in Cina.

Taipei, però, viste le continue minacce e pressioni sta perseguendo (anche) una politica economica di diversificazione. Tsai Ing-wen, l’attuale presidente di Taiwan, si sta muovendo in questa direzione sin dalla sua intronizzazione, nel 2016. Promuovendo, in particolare, la cooperazione economica con 18 nazioni della regione. Per tacere dei rapporti, stretti, con l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti.

Non solo, la reazione di Taiwan al libro bianco cinese è stata netta: il ministero degli Esteri, in una nota, ha respinto con forza il modello «un Paese, due sistemi» proposto dalla Cina e applicato, con tutte le derive del caso, a Hong Kong. Solo i cittadini di Taiwan, ha chiarito il ministero, sono titolati a decidere del loro futuro.

Il sentimento

E così, al netto degli investimenti e dei rapporti economici, mentre la Cina incoraggia le società taiwanesi a trasferirsi sul continente, grazie a vantaggi fiscali, Taipei spinge affinché queste aziende non delocalizzino. In fondo, non è necessario insistere: fra le rigide politiche zero-COVID applicate dal Partito comunista e le tensioni, crescenti, fra Pechino e Washington che si trascinano dall’era Trump, beh, a nessuno, o quasi, ora come ora verrebbe in mente di spostarsi da Taiwan alla Cina per lavorare.

In generale, l’intensa attività economica fra i due Paesi non ha suscitato, fra la popolazione taiwanese, un sentimento pro-Cina. Anzi, nel giugno 2022 solo il 2,4% dei taiwanesi, secondo un sondaggio, si considerava cinese. Trent’anni prima, la quota si attestava al 25,5%. Business is business, ma i sentimenti sono un’altra cosa.

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