Gaza: l'appello degli accademici svizzeri contro l'inazione di Berna

«Indignati dalla gravità delle violazioni del diritto internazionale commesse dall'esercito israeliano nei territori palestinesi occupati, e in particolare a Gaza, e preoccupati dalla passività della Svizzera, noi, professori di diritto internazionale pubblico e penale delle università svizzere, forti della nostra responsabilità accademica, ricordiamo al Consiglio federale che la Svizzera ha degli obblighi di diritto internazionale che deve imperativamente rispettare». Comincia così la lettera redatta da Samantha Besson (Université de Fribourg), Anna Petrig (Universität Basel) e Marco Sassòli (Université de Genève) e inviata a Berna in occasione del 76. anniversario della firma delle Convenzioni di Ginevra. Firmato, in totale, da 28 professori universitari (tra i quali anche una affiliata all'USI), il testo - visionato dal Corriere del Ticino - esprime la necessità, per la Confederazione, di prendere una posizione più decisa e attiva sulla questione israelopalestinese. Non solo. Dall'obbligo di non riconoscere come lecita l'occupazione dei territori palestinesi, a quello di «evitare che venga commesso il crimine di genocidio», il documento testimonia come il mancato rispetto di una serie di doveri legali potrebbe portare il nostro Paese «a incorrere in responsabilità internazionali e in potenziali procedimenti giudiziari».
Abbiamo contattato Sassòli - tra i principali firmatari, professore onorario UniGe, esperto di diritto internazionale - per meglio comprendere come è stata formulata la lettera.
Premesse
«Arrivare a dichiarazioni di questo tipo non è facile: il testo finale rappresenta il risultato di un lavoro di negoziazione che ha convinto tutti i redattori». Per la prima volta, professori di diritto internazionale provenienti da ogni angolo accademico svizzero sono andati oltre appelli generali, rivolgendo una lettera al Governo svizzero su ciò che la Svizzera dovrebbe fare. «Era importante sottolineare come i pareri consultivi della Corte internazionale di giustizia (ICJ) - sebbene non vincolanti - spieghino l'applicazione del diritto e vadano dunque seguiti», spiega Sassòli. Il riferimento, esplicitato anche nella lettera, è a quanto espresso il 19 luglio 2024 dalla ICJ sulle conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est), un parere che precisa non solo i doveri di Tel Aviv, ma anche quelli degli Stati terzi, Svizzera compresa. «L'obbligo di non riconoscere l'occupazione come lecita, quello di non prestare aiuto o assistenza al mantenimento di tale situazione, e quello di cooperare per porre fine a qualsiasi ostacolo all'esercizio del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese», si legge nel testo.
«Abbiamo ultimato la lettera e suggerito ai nostri colleghi di firmarla due settimane fa», ci spiega Sassòli. «L'ultima decisione di Israele di occupare completamente la Striscia di Gaza sta spingendo molti Paesi - come la Germania, che per ragioni storiche è sempre stata molto prudente, ma ora ha deciso di fermare l'esportazione verso lo Stato ebraico di armi che possono essere utilizzate a Gaza - a rivalutare la propria posizione. C'è un certo movimento, insomma. Ma noi speriamo che la nostra lettera non sia vista dal Consiglio federale come un invito, semplicemente, a "seguire ciò che fanno gli altri", quanto più a rispettare i fondamenti del diritto internazionale».
La linea da seguire
Ma di quali fondamenti parliamo? Per uscire dalla sua «inazione», come descritta dai firmatari, e per onorare i suoi vincoli internazionali, la Svizzera dovrebbe «sostenere attivamente» l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, «anche nei territori occupati della Palestina e a Gaza» (i fondi svizzeri all'UNRWA sono al momento destinati ai suoi programmi in Giordania, Libano e Siria), esplicita la lettera. Ma la Confederazione ha anche l'obbligo di monitorare le attività delle imprese svizzere, evitando il commercio di armi che «favorisca l'occupazione con la forza del territorio palestinese» e «l'importazione di prodotti provenienti da insediamenti» illegali israeliani. Parimenti, Berna «ha il dovere di cooperare agli sforzi collettivi degli altri Stati delle Nazioni Unite per l'istituzione di uno Stato palestinese come condizione per l'autodeterminazione del popolo palestinese», un impegno che, sottolineano gli esperti di diritto internazionale, deve realizzarsi «anche senza il consenso di Israele». Infine, in quanto firmataria delle Convenzioni di Ginevra, la Svizzera dovrebbe agire così da facilitarne il rispetto. Ad esempio, con sanzioni mirate contro i coloni israeliani che risiedono nel territorio palestinese, «in violazione del divieto imposto a Israele di trasferire parte della sua popolazione in questo territorio occupato». Di più: il fatto che la Confederazione sia anche Stato depositario di questi importanti trattati, ne «rafforza ulteriormente gli obblighi, tra cui quello di convocare una conferenza degli Stati parti sulla situazione nel territorio occupato della Palestina. Nella misura in cui le violazioni commesse da Israele costituiscono anche i crimini più gravi del diritto penale internazionale da parte degli individui che li commettono, tra cui crimini di guerra, crimini contro l'umanità e possibilmente genocidio, la Svizzera ha anche l'obbligo di prevenire e reprimere tali crimini».
Azioni concrete
Qual è, allora, il primo passo che dovrebbe compiere la Svizzera per sostenere (secondo le sue responsabilità) l'autodeterminazione palestinese? Riconoscere la Palestina? Imporre sanzioni agli israeliani impegnati nell'occupazione del territorio palestinese? La questione dei coloni, commenta l'esperto a corredo del testo della lettera, «rappresenta probabilmente il più grande ostacolo a una soluzione a due Stati. Con la tragedia di Gaza, ci si dimentica di tutto ciò che sta accadendo in Cisgiordania. L'aumento di popolazione nelle colonie rende lo sgombero di questi insediamenti illegali sempre più difficile da mettere in pratica. E certamente, uno Stato palestinese non può essere costruito su una somma di piccoli bantustan, ma deve essere qualcosa di geograficamente contiguo».
Secondo Sassòli «non esiste un obbligo di riconoscere uno Stato palestinese, ma non c'è nulla che impedisca di farlo: il riconoscimento sarebbe un segnale importante per il governo Netanyahu, che da anni fa di tutto per sabotare la soluzione a due Stati. Prendere misure per fermare le violazioni del diritto umanitario e l'annessione della Cisgiordania, invece, è un dovere». L'esperto conclude: «Immagino che il Consiglio federale non voglia essere l'ultimo a muoversi, ma è importante dimostrare che questo non è semplicemente un movimento di massa, non è qualcosa creato per andare tutti contro a Israele, ma piuttosto un rimettere al centro i propri obblighi internazionali».