Il fotografo e il leader russo: «Cosa vidi negli occhi di Putin»
L’attesa. La dacia. La spavalderia. Le canzoni dei Beatles. Il fotografo che le scattò racconta come nacquero le foto più famose di Vladimir Putin.
È una tradizione mediatica consolidata: ogni dicembre la fotografia della «persona dell’anno» messa in copertina dalla rivista americana Time fa il giro del mondo. Il 31 dicembre 2007 fu quella di Vladimir Putin. Il presidente russo era ancora lontano dalla brutale invasione dell’Ucraina nel febbraio scorso o anche (otto anni fa) dall’annessione della Crimea. La foto la scattò Platon, uno dei migliori ritrattisti al mondo. Anzi, ne scattò due. «Ci avevano detto che avrei potuto fotografare Putin solo durante l’intervista con il direttore di Time, e che non avrebbe posato per un ritratto», mi racconta Platon. «Aspettai alcuni giorni a Mosca. Un giorno dissero: è per domani. Portai comunque con me l’attrezzatura necessaria per fare un ritratto».
Direzione il Cremlino?
«Lo pensavo anch’io, ma mi hanno prelevato con un’auto nera e ci siamo diretti fuori Mosca. Attraverso un’oscura e desolata foresta siamo arrivati alla dacia privata di Putin. È stato come entrare in un film sulla guerra fredda. Un muro di sicurezza alto due piani, filo spinato, cecchini, guardie. Una di queste aprì il bagagliaio e con la canna della pistola indicò le mie borse dicendomi di aprirle. La temperatura era sottozero. Poi mi fecero entrare, attraverso un metal-detector. Mi misero in una stanza e nessuno mi disse nulla».
Eri con il direttore di Time?
«No. Non sapevo dove fosse. Ci hanno portato lì separatamente e non potevamo comunicare. Abbiamo aspettato otto ore. Poi sono arrivati i traduttori. Abbiamo parlato un po’. Sono venuti a chiamarmi e mi hanno detto: entra in quella stanza, hai cinque minuti per installare il tuo materiale. C’era la scrivania di Putin fiancheggiata da bandiere, e un lungo tavolo. Ho allestito il mio mini-studio, con un piccolo sfondo bianco sostenuto da un supporto. Ho installato le luci, e ho aspettato».
Poi è arrivato Putin?
«Sono arrivati prima i giornalisti di Time. Da un’altra porta. Ci siamo fatti un cenno col capo e si sono seduti al tavolo. Poi è entrato Putin con un entourage numeroso ed è cominciata l’intervista. Sono rimasto in disparte, ho fatto un paio di foto pensando che forse sarebbero state le sole. I traduttori sussurravano in un microfono e Putin li sentiva attraverso un auricolare. Notai che quando i giornalisti gli facevano una domanda, Putin ascoltava la traduzione e poi prima di rispondere in russo, si toglieva l’auricolare posandolo sul tavolo».


Come per indicare che non si trattava di una conversazione?
«Sì. Come a dire: non siamo in una logica di dialogo. Vi darò la mia risposta ma non vi permetterò di interrompermi, e solo quando avrò finito ascolterò la prossima domanda. Aveva un atteggiamento duro. Alla fine dell’intervista, il direttore di Time gli chiese: signor Presidente, abbiamo invitato il miglior fotografo al mondo per farle il ritratto che andrà sulla copertina della rivista. È d’accordo d’essere fotografato? Putin mi guardò e penso che vide che non ero il grande media americano arrogante, ma un piccolo fotografo un po’ intimidito, e disse sì. Fece uscire alcune persone dalla stanza, ma non le guardie del corpo, e si avvicinò con i consiglieri e i traduttori. Poiché avevo già parlato con questi ultimi e avevamo un minimo di rapporto, li guardai, chiesi loro di tradurre e dissi: signor Presidente, prima di documentare questo momento storico, vorrei farle una domanda».
Cosa gli chiedesti?
«Sono un grande fan dei Beatles, dissi. Sono cresciuto ascoltando la musica dei Beatles. E vorrei sapere se lei ha mai ascoltato i Beatles. Ci furono sguardi un po’ confusi e preoccupati, del tipo cosa-sta-succedendo, questo-non-era-in-programma. Ma un traduttore sussurrò la domanda a Putin. E l’umore di Putin sembrò cambiare. Mandò via traduttori e consiglieri. A quel punto ho temuto di averlo fatto incavolare, di essermi messo nei guai. Invece mi rispose in un inglese impeccabile: amo i Beatles. Gli dissi: non sapevo che parlasse inglese. E lui: lo parlo molto bene. E allora gli domandai quale fosse il suo Beatle preferito. Paul, rispose. Iniziai a pensare che forse stavamo stabilendo il tipo di rapporto che mi serve per fotografare qualcuno. Gli chiesi: qual è la sua canzone preferita? È forse Back in the USSR? (Ritorno in Unione Sovietica). E lui: no. Poi fece una pausa. E disse: è Yesterday».
La canzone dice: «Ieri, tutti i miei guai sembravano lontanissimi. Adesso sembra quasi che stiano di casa qui. Oh io credo in ieri».
«Sì, quella. Ho avuto l’impressione che mi stesse mandando, attraverso una canzone di Paul McCartney e John Lennon, un messaggio sul potere e l’autorità passate dell’Unione Sovietica. Citando l’altra canzone, io avevo buttato lì l’idea del ritorno all’Unione Sovietica. Lui mi aveva invece risposto – è la mia interpretazione – che Yesterday era una migliore descrizione dei suoi sentimenti come leader della Russia. E così abbiamo avuto questa conversazione attraverso la musica dei Beatles! Chiaramente Putin conosce bene la cultura occidentale. E poi mi ha detto "facciamo la foto", e si è seduto».


Ne sono poi uscite due, di foto.
«Per la prima, per il ritratto in primo piano, penso di essere stato più vicino a lui, fisicamente, di quanto nessun politico sia mai stato. Sentivo il suo respiro sulla mia mano mentre puntavo l’obiettivo, gli ho aggiustato i capelli, era un momento quasi intimo. Poi volevo qualcosa di più fisico, qualcosa che mostrasse il modo in cui lui usa la sua struttura fisica. Perché se lo guardi camminare ha una certa spavalderia minacciosa nei movimenti. E il modo in cui si siede! È molto costruito, ma allo stesso tempo è davvero lui. Volevo provare a catturarlo in un’immagine».
Sono due immagini che rivelano molto.
«Credo che la prima riveli il Putin stratega, che vuole quello che vuole nonostante il costo umano. Ha una mente da non sottovalutare. Considerarlo come uno che ha dato fuori di testa, come molti hanno fatto dopo l’inizio della guerra in Ucraina, è riduttivo e rischioso. L’altra, quella da seduto, mostra un atteggiamento intimidatorio, quasi gangsteristico. Molti leader mondiali hanno atteggiamenti simili, ma qui ho sentito una certa autenticità. È senza paura. Non gli importa cosa pensiamo di lui. Tutti i nostri politici sono così paranoici riguardo alla loro immagine e ai sondaggi. Putin è preoccupato d’altro: del potere».
Che cosa vuoi ottenere quando scatti il ritratto di un leader?
«Che abbia fatto grandi cose o che abbia fatto cose terribili, quando fotografo qualcuno cerco di sintonizzarmi sulla sua frequenza. Quando ci riesco, attraverso l’obiettivo è come se potessi vedere per un breve attimo nel loro cuore e nella loro mente, e cercar di catturare quella sensazione in un’immagine. Non sono lì per esprimere giudizi: sono lì per essere il più onesto possibile per un cinquecentesimo di secondo, il tempo dello scatto. E quando tutto combacia, quell’attimo fuggente può diventare eterno».


Parlami di quando fotografi quelli che hanno fatto, come hai detto, cose terribili.
«A volte fotografo persone che hanno abusato dei diritti umani, o della loro posizione di potere. Eppure, anche in loro può esserci una sorta di qualità umana che traspira dalle foto. Molti diranno: beh, non dovresti umanizzarli, non dovresti dar loro una piattaforma. Ma il mio lavoro è dire: ecco chi è questa persona. Se qualcuno mostra un elemento di umanità, o anche di fascino, è reale. E se hanno fatto cose terribili, significa che sono ancora più pericolosi di quanto pensiamo, perché malgrado sappiano cosa sono l’empatia e la compassione continuano a danneggiare le vite degli altri. Se le raffiguriamo solo come una vignetta bidimensionale non capiremo mai quanto possano essere pericolose queste persone. Possono ispirare altri, possono motivarli, possono persuaderli a seguirli. Il mio lavoro è quello di essere un provocatore culturale e di istigare quel dibattito in modo rispettoso».
Fotografi anche persone che tutti ammirano.
«Certo. Ma è sempre complicato. Punto l’obiettivo verso qualcuno che tutti ammirano, ma magari la persona ha una venatura sospettosa, difficile, ansiosa, egoistica, negativa. Oppure fotografo un dittatore, che ha ucciso e distrutto, e scopro che, come persona, è carismatico e affascinante. È sempre una realtà scomoda, ma dobbiamo guardare a chi sono veramente. Li giudicherà la Storia. La cosa peggiore che io possa fare è ritrarre i nostri eroi come eroi e i nostri cattivi come cattivi e perpetuare ciò che già sappiamo. Mi piace usare la fotografia per porre domande scomode alla società. Per esempio: com’è che questa persona ha acquisito così tanto potere?».
Hai realizzato ritratti famosissimi: Michelle Obama, Muhammad Ali, Mark Zuckerberg, Stephen Hawking. Al centro stanno gli occhi. Cosa pensi di aver visto negli occhi di Putin quando eravate lì, il tuo obiettivo a pochi centimetri dal suo volto?
«La mia impressione è che non volesse essere visto con occhi occidentali. Che volesse essere visto come si vede lui, un nazionalista russo. È forse per questo che inizialmente non voleva posare per un fotografo occidentale, per non rischiare di perpetuare il nostro punto di vista su di lui».
Ma poi avete parlato dei Beatles.
«Quello era solo un tentativo di instaurare un tipo diverso di rapporto. E con la macchina fotografica in mano, le mie insicurezze sono scomparse. È il mio lavoro, so quel che faccio, e forse lo ha sentito anche lui, che non ero lì per ritrarlo attraverso gli occhi di Hollywood, ma per incontrarlo come persona, faccia a faccia, nel bene o nel male».
