Il caso

Il futuro di Netflix è la pubblicità

Sarebbe un passo storico, che le farebbe perdere quell’aura cool che in fondo ha mantenuto anche quando è diventata di massa
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Stefano Olivari
21.04.2022 06:00

Netflix è finita? La piattaforma di streaming più diffusa nel mondo sta in questi giorni generando più discussioni che nuovi abbonamenti, diversamente le sue azioni non varrebbero 220 dollari contri i quasi 700 di cinque mesi fa. Con una tendenza negativa che nelle ultime ore si è accentuata e un crollo addirittura del 36% all’apertura del Nasdaq di mercoledì.

Abbonamenti

Gli abbonamenti in realtà non sono crollati in maniera tale da giustificare questa catastrofe borsistica, perché l’azienda ha sì annunciato di avere perso 200.000 abbonati nel primo trimestre 2022 e che nel secondo prevede di perderne 2 milioni, ma gli abbonati in tutto il mondo sono in questo momento 221,6 milioni. Senza condivisioni di password (quantificate in circa 100 milioni di utenti, per un terzo negli Stati Uniti) e pirateria pura i paganti ufficiali potrebbero tranquillamente essere il doppio. Certo è che per la prima volta negli ultimi dieci anni un trimestre si è chiuso con un calo degli abbonamenti, sia pure modesto. E ancora più certo è che gli abbonati sono quasi il decuplo rispetto a dieci anni fa. Insomma, la crisi sembra un’altra cosa rispetto a ciò che sta accadendo a Netflix come titolo azionario. Quindi o il mercato non crede allo streaming, dopo miliardi di articoli e seriose previsioni del genere «La televisione è finita, per i giovani solo streaming», oppure ha più fiducia nei concorrenti di Netflix, da Amazon Prime Video al neonato gigante Warner-Discovery. Comunque nei primi tre mesi del 2022, quelli dei meno 200.000, i ricavi sono aumentati del 10%, arrivando a quota 7,87 miliardi di dollari, mentre gli utili sono leggermente calati, da 1,71 miliardi del primo trimestre 2021 a 1,6.

Pandemia e Russia

La COVID-19 e Putin sono usati ormai per giustificare tutto ed il crollo del titolo Netflix non fa eccezione. Stare chiusi in casa favorisce il consumo di serie televisive, senza bisogno di grandi analisi, quindi ci sta che la liberazione da certi vincoli sia stata negativa per lo streaming. Più interessante l’effetto Russia, citato dalla stessa Netflix che ha quantificato in 700.000 gli abbonamenti persi a causa delle sanzioni: in pratica è già servita la spiegazione del calo anche per il secondo trimestre. Senza dimenticare che negli Stati Uniti di abbonati se ne sono già persi per strada 600.000, il che significa che nel resto del mondo Netflix non va poi così male. Poi l’economia non aiuta, con l’esplodere dell’inflazione che rende tutti più attenti anche alle piccole spese, anzi paradossalmente soprattutto a quelle: come tutti i consumi culturali, Netflix sul piano commerciale gioca nel campionato del superfluo.

Pubblicità e videogiochi

La nostra vita è così sommersa di mini-abbonamenti, di cui spesso ci dimentichiamo, che fare ragionamenti su pochi dollari o pochi franchi in più al mese sembra ridicolo. Il problema sembra più che altro la scelta: fra Disney+, Amazon Prime Video e tutto il resto a volte manca il fiato e viene in mente lo Springsteen di 57 Channels (ed era il 1992, ben prima dell’internet di massa). La strategia di Reed Hastings, confondatore di Netflix nell’ormai lontano 1997, sarebbe quella di continuare ad offrire più livelli e di aggiungerne uno low cost e apparentemente contro la filosofia storica dell’azienda, cioè con spot ed interruzioni pubblicitarie. Un modo per tenere nel mondo Netflix quei 100 milioni di abusivi, quando si troverà il modo di impedirgli la visione dei contenuti senza pubblicità. Magari con la pubblicità i conti torneranno, del resto altri colossi sono da tempo sulla stessa strada (Disney+, Hulu, HBO Max, Amazon, Paramount+, eccetera), ma non c’è dubbio che questo sarebbe per Netflix un passo storico. Che le farebbe perdere quell’aura cool che in fondo ha mantenuto anche quando è diventata di massa. Al di là della pubblicità, si sta poi facendo il punto anche sulla sezione videogiochi, che non ha prezzi aggiuntivi e che probabilmente non ne avrà: fin dall’inizio la sua funzione è stata quella di tenere i giovanissimi nel mondo Netflix, anche se la maggior parte dei giochi disponibili sono sparattutto o comunque molto semplici, per il gusto di un pubblico adulto, ai confini del boomer.

I titoli

La forza di Netflix è sempre stata quella dei contenuti, soprattutto quelli originali, da Squid Game a Bridgerton, dalla Casa di carta a Cobra Kai, facendo crescere l’attesa con spoiler pilotati: sulla quarta stagione di Stranger Things, la serie ambientata negli anni Ottanta, che sarà online il 27 maggio, si è già letto e sentito di tutto. Il problema è che, come avveniva nel cinema di una volta, il The Crown della situazione deve pagare i conti di tanti flop o prodotti che semplicemente non si ha il tempo di guardare. Netflix è infatti il principale produttore cinematografico e televisivo del mondo, alimentando uno strano meccanismo che la rende sia cliente sia fornitore di sé stessa. Da qui in budget mostruosi, non sempre giustificati: perché i 520 milioni di dollari di The Crown, circa 13 milioni a episodio, o i 365 di House of Cards (5 milioni ad episodio) si sono probabilmente tradotti in abbonamenti o in soddisfazione di chi già era abbonato, ma i 160 di The Irishman si sono tradotti in un flop storico, con tutto il rispetto per Scorsese.

Meglio della concorrenza statunitense Netflix è messa nell’ottica «local», viste le tante produzioni originali nelle differenti lingue, e forse è proprio qui che andrà al recupero, facendosi percepire come meno colonizzatore di altri. Su tutto c’è che dieci franchi al mese si possono sempre trovare, ma il tempo è un bene limitato: secondo diversi sondaggi più del 30% degli abbonati a Disney+ (che non soltanto serie e film per bambini) ha disdetto i precedenti abbonamenti a Netflix o a Prime. Paradossale è che la salvezza della pay-tv possa arrivare dalla pubblicità, cioè dall’architrave della tivù commerciale free.

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