L'intervista

«Il Reddito di cittadinanza ha fallito nel creare lavoro, ma non va abolito»

La misura voluta dal M5S sta spaccando la politica italiana: va ripensata o mantenuta? L'intervista all'ex ministro del lavoro Elsa Fornero: «Il RDC ha aiutato molte famiglie, ma va corretto e migliorato»
Michele Montanari
03.10.2022 15:30

Tema caldo della campagna elettorale e ora pomo della discordia tra maggioranza e opposizione, il Reddito di cittadinanza (RDC) sta infiammando i dibattiti politici. Di più, l’Italia rischia letteralmente di spaccarsi in due, visto che la misura introdotta tre anni fa dal Governo gialloverde è prevalentemente utilizzata nel sud del Paese, dove il Movimento 5 Stelle, manco a dirlo, ha fatto incetta di voti. Il leader grillino Giuseppe Conte ha promesso una battaglia «dura e intransigente» affinché Fratelli d’Italia non tocchi quello strumento che il ministro Di Maio accolse in pompa magna dichiarando di aver «abolito la povertà». Complice la pandemia, i meno abbienti ovviamente non sono spariti dalla Penisola: l’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) nel 2021 ha stimato 5,6 milioni di individui in condizione di povertà assoluta (come nel 2020). E l'orizzonte, tra conseguenze della guerra in Ucraina e crisi energetica, è tutt'altro che sereno. In 3 anni di RDC sono stati elargiti – secondo l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) – oltre 23 miliardi di euro a 2,2 milioni di famiglie (4,8 milioni di persone). Come valutare dunque questo aiuto statale? È ancora sostenibile per l’Italia in un periodo storico tanto complicato o andrebbe «abolito» per evitare un ulteriore indebitamento pubblico? Ne parliamo con l’economista Elsa Fornero, già ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Professoressa Fornero, dopo tre anni dalla sua introduzione, come possiamo valutare il Reddito di cittadinanza?
«Innanzitutto, bisogna considerare il RDC in una prospettiva non ideologica. È naturale che i partiti ne facciano, da un lato, una bandiera, e dall’altro, lo valutino una misura estremamente negativa. Il RDC, oggi che abbiamo i dati perlopiù descrittivi dell’INPS, va messo sotto la lente di ingrandimento per capire se effettivamente sia servito e chi lo ha utilizzato. In questo secondo caso è importante capire se chi ne ha beneficiato ha poi avuto sbocchi nel mondo del lavoro. Va inoltre evidenziato il periodo storico che stiamo vivendo: la misura è stata introdotta in anni di andamento non normale dell’economia, quindi i dati a nostra disposizione hanno molte lacune. Detto questo, si può dire che il RDC è stato uno strumento in grado di alleviare fortemente la povertà di molte famiglie, però ha totalmente fallito dal punto di vista della creazione di lavoro. Il RDC è nato mischiando due componenti: quella di contrasto alla povertà - che serviva assolutamente -  e quella che riguarda l’employability (occupabilità), necessaria a rendere le persone adatte a un mondo del lavoro che cambia e che richiede determinate competenze. In questo senso, il RDC avrebbe dovuto provvedere anche alla formazione di persone che si affacciano sul mondo del lavoro o di quelle che cambiano mestiere: tutta questa seconda parte però non ha funzionato. Come strumento assistenziale è invece necessario, tralasciando i vari casi di abuso, che dipendono più che altro dalla scarsità di controlli e da una certa tendenza degli italiani ad approfittarsene».

Evidentemente è una misura ancora incompleta, ma il Movimento 5 Stelle ha fatto sapere che la difenderà a tutti i costi affinché non venga toccata.
«Il RDC deve essere corretto: nessuna misura nasce perfetta. Quella del Movimento 5 Stelle comunque non è una proposta del tutto nuova: in condizioni di forti restrizioni economiche io inventai l’ASPI (Assicurazione sociale per l’impiego), una misura pensata per aiutare le persone a entrare nel mondo del lavoro. La misura è stata poi rafforzata dal Governo Renzi, che l’ha chiamata NASPI (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), allargando la platea anche ai lavoratori autonomi. Nelle mie intenzioni, e probabilmente anche in quelle di chi è venuto dopo di me, avrebbe dovuto facilitare e migliorare le transizioni dalla scuola al lavoro e da un posto di lavoro a un altro. Questa misura in sostanza diceva: “Noi ti diamo un’assistenza e al tempo stesso applichiamo politiche attive, come la formazione”. Come detto, noi operavamo in un contesto caratterizzato da una limitazione di risorse molto maggiore. I 5 Stelle invece non hanno nessuna idea della limitazione di risorse: se non ci sono i soldi, loro fanno tranquillamente debito. Hanno un tipo di cultura in cui i vincoli finanziari vengono totalmente ignorati. Questo atteggiamento è stato un punto di forza della campagna elettorale di Conte, che effettivamente ha avuto successo. D’altra parte chi dice che il RDC andrebbe abolito, dice una stupidaggine».

Quando si ha una platea di persone, anche giovani, che si lascia andare, è un grave problema sociale. In Italia abbiamo il triste primato europeo di persone che non lavorano e non studiano.

Fratelli d'Italia parla di abolizione e propone misure di sostegno sostitutive. Concretamente come si può migliorare il RDC tenendo in considerazione i vincoli economici appena citati?
«Bisogna far sì che le cosiddette politiche passive, ossia l’erogazione dei soldi, si raccordino in maniera molto stretta con quelle attive. Tradotto: "Ti do i soldi, ma ti do anche gli strumenti e tu devi dimostrare che ti stai dando da fare per trovare un lavoro". Quando si ha una platea di persone, anche giovani, che si lascia andare, è un grave problema sociale. In Italia abbiamo il triste primato europeo di NEET (Not in Education, Employment or Training), cioè di persone che non lavorano e non studiano: abbiamo circa due milioni e mezzo di giovani in queste condizioni e alcuni di loro presumibilmente prendono il RDC. Il problema lo si risolve sottoponendo uno strumento come il RDC a maggiori condizioni: tolte le offerte di lavoro insultanti che si trovano oggi, bisogna chiarire che non è possibile rifiutare le offerte "congrue" e poi continuare a percepire il sostegno di Stato. Quindi il RDC non va buttato via, ma neanche mantenuto così, con toni da crociata come quelli di Conte: va rafforzato il rapporto tra politiche attive/passive e va ridotta l’area di chi lo percepisce, sottoponendo la misura a qualche condizionalità in più. Bisogna poi considerare che il COVID ha cambiato gli atteggiamenti delle persone: pensiamo a chi ha dato le dimissioni volontarie senza nessun lavoro a portata di mano».

Dal punto di vista delle politiche attive come bisognerebbe intervenire?
«Bisogna occuparsi della già citata occupabilità: in molte aree del Paese c’è domanda di lavoro ma non c’è l’offerta. Il mercato del lavoro potrebbe portare occupazione ma i datori non trovano offerta: la formazione del lavoratore e l’aggiornamento delle sue competenze sono questioni importantissime. Ma, come dicevo prima, la pandemia ha portato alla luce un nuovo problema: non si tratta solo di mancanza di competenze, molta gente è demotivata. In questi casi va proprio ricostruita la motivazione delle persone».

L’introduzione di un salario minimo, affiancato al RDC, potrebbe dare questa motivazione persa? Mi spiego: se vengono proposti stipendi da fame, dove trovo gli stimoli per rinunciare all’aiuto statale?
«Il salario minimo è uno strumento diverso e chiaramente è possibile integrarlo al RDC. Molti economisti dicono che il salario minimo porta a una riduzione della domanda di lavoro e, di conseguenza, a un calo dell’occupazione. Non è sempre detto, perché l’incontro tra domanda e offerta in questo periodo di forti cambiamenti è molto più articolato di quanto non lo fosse in passato. In questo senso, l’introduzione di un salario minimo potrebbe rappresentare uno shock positivo per le imprese e per determinate categorie professionali. Molte aziende stanno a galla con salari bassi e se chiedi loro di pagare un po’ di più i lavoratori, magari rischiano di chiudere. Però potrebbe essere necessario che si ristrutturi il mondo delle imprese, così da avere maggiore efficienza e maggiore produttività. A volte il lavoratore è poco produttivo perché si trova con strumenti non adeguati e arretrati, oppure c’è un forte disallineamento tra le sue reali competenze e quello che gli viene richiesto. Un salario minimo potrebbe causare quello shock che costringe le imprese a riorganizzarsi, restando sul mercato con salari adeguati».

L’Italia non è abituata a un discorso politico serio che abbia contenuti e spiegazioni (...). Non a caso siamo stati l’unico tra i grandi Paesi europei ad avere un Governo allo stesso tempo populista e sovranista.

Berlusconi in campagna elettorale ha addirittura detto di voler raddoppiare il RDC. Sarebbe una misura sostenibile in questo periodo di crisi generale?
«No, l’uscita di Berlusconi è solo uno slogan. Questi politici non riescono a venire a patti con la realtà. Chi guiderà il Governo, con tutta probabilità Giorgia Meloni, è molto più prudente nelle dichiarazioni. Non si possono prendere sul serio le uscite dell’ex premier, come quella di voler portare a mille euro al mese tutte le pensioni: sono boutade, non sono una prova di serietà. Il Paese meriterebbe che la politica usasse un linguaggio di maggiore responsabilità».

Però queste sparate hanno una forte presa sul pubblico. Il PD ha fatto una campagna elettorale tutt’altro che esaltante, ma è stato molto più responsabile. Abbiamo visto il risultato…
«Su questo punto devo fare una considerazione molto amara: il livello cultuale dell’Italia si è fortemente abbassato e, a questo calo, è corrisposto un aumento dell’attitudine ad accettare le illusioni. Illusioni che poi si trasformano in delusioni, visto che le promesse sono tante, ma poche vengono realizzate. L’Italia non è abituata a un discorso politico serio che abbia contenuti e spiegazioni. I politici dicono soltanto: “Desideri questo? Te lo diamo domani mattina”. Non a caso siamo stati l’unico tra i grandi Paesi europei ad avere un Governo allo stesso tempo populista e sovranista. Bisogna dirlo, servono cittadini più colti e consapevoli, perché solo così la democrazia può funzionare bene: studiare deve essere un valore, non una discriminante. Per quanto riguarda il PD, è vero, è stato più responsabile, ma ha avuto spesso paura di parlare e non è stato in grado di spiegare agli elettori le varie misure con la dovuta trasparenza».

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