«Il Reddito di cittadinanza ha fallito nel creare lavoro, ma non va abolito»
Tema caldo della campagna elettorale e ora pomo della discordia tra maggioranza e opposizione, il Reddito di cittadinanza (RDC) sta infiammando i dibattiti politici. Di più, l’Italia rischia letteralmente di spaccarsi in due, visto che la misura introdotta tre anni fa dal Governo gialloverde è prevalentemente utilizzata nel sud del Paese, dove il Movimento 5 Stelle, manco a dirlo, ha fatto incetta di voti. Il leader grillino Giuseppe Conte ha promesso una battaglia «dura e intransigente» affinché Fratelli d’Italia non tocchi quello strumento che il ministro Di Maio accolse in pompa magna dichiarando di aver «abolito la povertà». Complice la pandemia, i meno abbienti ovviamente non sono spariti dalla Penisola: l’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) nel 2021 ha stimato 5,6 milioni di individui in condizione di povertà assoluta (come nel 2020). E l'orizzonte, tra conseguenze della guerra in Ucraina e crisi energetica, è tutt'altro che sereno. In 3 anni di RDC sono stati elargiti – secondo l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) – oltre 23 miliardi di euro a 2,2 milioni di famiglie (4,8 milioni di persone). Come valutare dunque questo aiuto statale? È ancora sostenibile per l’Italia in un periodo storico tanto complicato o andrebbe «abolito» per evitare un ulteriore indebitamento pubblico? Ne parliamo con l’economista Elsa Fornero, già ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Professoressa
Fornero, dopo tre anni dalla sua introduzione, come possiamo valutare il Reddito
di cittadinanza?
«Innanzitutto,
bisogna considerare il RDC in una prospettiva non ideologica. È naturale che i partiti
ne facciano, da un lato, una bandiera, e dall’altro, lo valutino una misura
estremamente negativa. Il RDC, oggi che abbiamo i dati perlopiù descrittivi
dell’INPS, va messo sotto la lente di ingrandimento per capire se effettivamente
sia servito e chi lo ha utilizzato. In questo secondo caso è importante capire
se chi ne ha beneficiato ha poi avuto sbocchi nel mondo del lavoro. Va inoltre
evidenziato il periodo storico che stiamo vivendo: la misura è stata introdotta
in anni di andamento non normale dell’economia, quindi i dati a nostra
disposizione hanno molte lacune. Detto questo, si può dire che il RDC è stato
uno strumento in grado di alleviare fortemente la povertà di molte famiglie, però ha
totalmente fallito dal punto di vista della creazione di lavoro. Il RDC è nato
mischiando due componenti: quella di contrasto alla povertà - che serviva assolutamente - e quella
che riguarda l’employability (occupabilità), necessaria a rendere le
persone adatte a un mondo del lavoro che cambia e che richiede determinate
competenze. In questo senso, il RDC avrebbe dovuto provvedere anche alla
formazione di persone che si affacciano sul mondo del lavoro o di quelle che cambiano mestiere: tutta questa seconda parte però non ha
funzionato. Come strumento assistenziale è invece necessario, tralasciando i vari casi di abuso,
che dipendono più che altro dalla scarsità di controlli e da una certa
tendenza degli italiani ad approfittarsene».
Evidentemente è una misura ancora incompleta, ma il Movimento 5 Stelle ha fatto sapere che la
difenderà a tutti i costi affinché non venga toccata.
«Il RDC deve essere corretto: nessuna misura nasce
perfetta. Quella del Movimento 5 Stelle comunque non è una proposta del tutto
nuova: in condizioni di forti restrizioni economiche io inventai l’ASPI (Assicurazione sociale per l’impiego), una misura pensata per aiutare le persone a entrare nel
mondo del lavoro. La misura è stata poi rafforzata dal Governo Renzi, che l’ha
chiamata NASPI (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), allargando la
platea anche ai lavoratori autonomi. Nelle mie intenzioni, e probabilmente
anche in quelle di chi è venuto dopo di me, avrebbe dovuto facilitare e
migliorare le transizioni dalla scuola al lavoro e da un posto di lavoro a un
altro. Questa misura in sostanza diceva: “Noi ti diamo un’assistenza e al tempo
stesso applichiamo politiche attive, come la formazione”. Come detto,
noi operavamo in un contesto caratterizzato da una limitazione di risorse molto
maggiore. I 5 Stelle invece non hanno nessuna idea della limitazione di risorse:
se non ci sono i soldi, loro fanno tranquillamente debito. Hanno un tipo di
cultura in cui i vincoli finanziari vengono totalmente ignorati. Questo atteggiamento
è stato un punto di forza della campagna elettorale di Conte, che
effettivamente ha avuto successo. D’altra parte chi dice che il RDC andrebbe
abolito, dice una stupidaggine».


Fratelli d'Italia parla di abolizione e propone misure di sostegno sostitutive. Concretamente
come si può migliorare il RDC tenendo in considerazione i vincoli economici
appena citati?
«Bisogna
far sì che le cosiddette politiche passive, ossia l’erogazione dei soldi, si
raccordino in maniera molto stretta con quelle attive. Tradotto: "Ti do i soldi,
ma ti do anche gli strumenti e tu devi dimostrare che ti stai dando da fare per trovare un lavoro". Quando si
ha una platea di persone, anche giovani, che si lascia andare, è un grave problema
sociale. In Italia abbiamo il triste primato europeo di NEET (Not in Education,
Employment or Training), cioè di persone che non lavorano e non studiano: abbiamo
circa due milioni e mezzo di giovani in queste condizioni e alcuni di loro presumibilmente prendono il RDC. Il problema lo si risolve sottoponendo uno strumento
come il RDC a maggiori condizioni: tolte le offerte di lavoro insultanti che si
trovano oggi, bisogna chiarire che non è possibile rifiutare le offerte "congrue" e poi continuare a percepire il sostegno di Stato. Quindi il RDC non va buttato via, ma
neanche mantenuto così, con toni da crociata come quelli di Conte: va
rafforzato il rapporto tra politiche attive/passive e va ridotta l’area di
chi lo percepisce, sottoponendo la misura a qualche condizionalità in più. Bisogna
poi considerare che il COVID ha cambiato gli atteggiamenti delle persone: pensiamo
a chi ha dato le dimissioni volontarie senza nessun lavoro a portata di mano».
Dal punto
di vista delle politiche attive come bisognerebbe intervenire?
«Bisogna occuparsi
della già citata occupabilità: in molte aree del Paese c’è domanda di lavoro ma
non c’è l’offerta. Il mercato del lavoro potrebbe portare occupazione ma i
datori non trovano offerta: la formazione del lavoratore e l’aggiornamento
delle sue competenze sono questioni importantissime. Ma, come dicevo prima, la
pandemia ha portato alla luce un nuovo problema: non si tratta solo di mancanza
di competenze, molta gente è demotivata. In questi casi va proprio ricostruita la
motivazione delle persone».
L’introduzione
di un salario minimo, affiancato al RDC, potrebbe dare questa motivazione
persa? Mi spiego: se vengono proposti stipendi da fame, dove trovo gli stimoli
per rinunciare all’aiuto statale?
«Il salario
minimo è uno strumento diverso e chiaramente è possibile integrarlo al RDC. Molti
economisti dicono che il salario minimo porta
a una riduzione della domanda di lavoro e, di conseguenza, a un calo dell’occupazione.
Non è sempre detto, perché l’incontro tra domanda e offerta in questo periodo di
forti cambiamenti è molto più articolato di quanto non lo fosse in passato. In questo senso, l’introduzione
di un salario minimo potrebbe rappresentare uno shock positivo per le imprese e per determinate categorie professionali.
Molte aziende stanno a galla con salari bassi e se chiedi loro di pagare un po’
di più i lavoratori, magari rischiano di chiudere. Però potrebbe essere
necessario che si ristrutturi il mondo delle imprese, così da avere maggiore
efficienza e maggiore produttività. A volte il lavoratore è poco produttivo
perché si trova con strumenti non adeguati e arretrati, oppure c’è un forte disallineamento
tra le sue reali competenze e quello che gli viene richiesto. Un salario minimo
potrebbe causare quello shock che costringe le imprese a riorganizzarsi, restando sul mercato con salari adeguati».


Berlusconi in campagna
elettorale ha addirittura detto di voler raddoppiare il RDC. Sarebbe una misura
sostenibile in questo periodo di crisi generale?
«No, l’uscita
di Berlusconi è solo uno slogan. Questi politici non riescono a venire a patti
con la realtà. Chi guiderà il Governo, con tutta probabilità Giorgia Meloni, è molto più prudente nelle dichiarazioni. Non si possono prendere sul serio le uscite dell’ex premier, come quella di voler portare a mille euro al
mese tutte le pensioni: sono boutade, non sono una prova di serietà. Il Paese
meriterebbe che la politica usasse un linguaggio di maggiore responsabilità».
Però queste
sparate hanno una forte presa sul pubblico. Il PD ha fatto una campagna
elettorale tutt’altro che esaltante, ma è stato molto più responsabile. Abbiamo
visto il risultato…
«Su questo
punto devo fare una considerazione molto amara: il livello cultuale dell’Italia
si è fortemente abbassato e, a questo calo, è corrisposto un aumento dell’attitudine
ad accettare le illusioni. Illusioni che poi si trasformano in delusioni, visto che le promesse sono tante,
ma poche vengono realizzate. L’Italia non è abituata a un discorso
politico serio che abbia contenuti e spiegazioni. I politici dicono soltanto: “Desideri
questo? Te lo diamo domani mattina”. Non a caso siamo stati l’unico tra i grandi Paesi
europei ad avere un Governo allo stesso tempo populista e sovranista. Bisogna
dirlo, servono cittadini più colti e consapevoli, perché solo così la democrazia
può funzionare bene: studiare deve essere un valore, non una discriminante. Per
quanto riguarda il PD, è vero, è stato più responsabile, ma ha avuto spesso
paura di parlare e non è stato in grado di spiegare agli elettori le varie
misure con la dovuta trasparenza».