L'intervista

«Il vero pericolo è il radicamento ideologico»

Con Claudio Bertolotti, esperto di anti-terrorismo, parliamo dei fatti di Arras e Bruxelles, degli anni in cui la paura era enorme e delle nuove preoccupazioni in Europa
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Dario Campione
18.10.2023 06:00

Claudio Bertolotti, già capo sezione contro- intelligence e sicurezza della NATO in Afghanistan, è oggi direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo in Europa (ReaCT) e coautore del “Rapporto annuale sul terrorismo e il radicalismo in Europa” giunto quest’anno alla quarta edizione e presentato a Lugano alcuni giorni fa in un convegno organizzato all’auditorium dell’USI.

I fatti di Arras e di Bruxelles hanno fatto ripiombare l’Europa continentale nella paura del terrorismo di matrice islamista. Che cosa succede? Siamo di fronte a una situazione che deve farci preoccupare seriamente?
«Per risponderle serve una premessa: il terrorismo jihadista, così come l’abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi anni, ha avuto la sua massima espressione di violenza nel periodo 2015-2017, in concomitanza con l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche grazie all’amplificazione massmediatica, l’ISIS riuscì ad attirare una serie di reclute, di adepti, ma anche semplicemente a ispirare soggetti che poi colpirono in suo nome, pur senza fare parte dell’organizzazione. Dal 2018, gli attacchi terroristici sono diminuiti e si sono stabilizzati su numeri comunque importanti per l’Europa. Parliamo di 18, 20 attentati all’anno, spesso fallimentari e con una bassa attenzione mediatica. Azioni che non hanno alimentato l’effetto emulativo. Oggi, purtroppo, ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella del 2015-2017: non c’è più lo Stato islamico che si impone mediaticamente, ma c’è la guerra, la contrapposizione fra israeliani e Hamas».

L’evento che fa da catalizzatore per i nuovi, potenziali, terroristi.
«Sì, un grande evento che, purtroppo, alimenta la minaccia potenziale - sempre in attesa di essere attivata - di singoli soggetti emulatori, i quali aspirano a essere riconosciuti come combattenti islamici mettendo in atto, attraverso la violenza, il messaggio jihadista del “noi contro voi”».

La fabbrica dell’odio - se così possiamo chiamarla - è però sempre rimasta attiva, non si è mai fermata. Faccio riferimento al Web, alla Rete, che anche nel vostro rapporto viene considerato il “luogo” di maggiore pericolosità per ciò che concerne la radicalizzazione dei militanti jihadisti.
«Senza dubbio, la fabbrica dell’odio non soltanto esiste, ma si consolida lentamente nel mondo virtuale, delle bolle di conoscenza con cui questi soggetti entrano in contatto. Un mondo parallelo, nel quale tutto viene inteso e interpretato in maniera assoluta e trasformato in una visione del mondo a senso unico. Chi entra in questa bolla, alla fine crede di dover essere portatore di un’istanza di massa contro l’Occidente, che inevitabilmente diventa il nemico da abbattere. Più dei luoghi fisici, cioè più delle moschee e più dei centri sociali di incontro dei radicalizzati, il Web è quindi diventato da molto tempo il terreno di confronto e di raccolta di informazioni degli estremisti».

C’è allora il rischio di tornare indietro ad anni in cui la paura era enorme, soprattutto in Europa?
«Se guardiamo ai numeri, ci accorgiamo che in questi anni è cresciuto l’intervallo tra un attentato e l’altro, è diminuito il numero complessivo di attentatori così come il numero di attentatori per singolo attacco e, con essi, è diminuita anche l’efficacia delle azioni. In termini semplicistici, possiamo dire che sono molti di più gli attentati che non vanno a segno, quelli cioè che non provocano vittime tra la popolazione civile. E tuttavia, ugualmente questi atti terroristici riescono a ottenere un risultato molto importante di “blocco funzionale” della società: un attentatore che colpisce, anche in modo fallimentare, porta alla chiusura di una strada o di un’area urbana, all’intervento della polizia, alla mobilitazione di mezzi di soccorso e alla momentanea riduzione del servizio sanitario disponibile per la popolazione civile. Insomma, provoca danni che si si possono quantificare in termini economici, costi effettivi per la società».

Soprattutto, alimentano l’angoscia, la preoccupazione.
«A Bruxelles, è stata data molta attenzione a quanto accaduto anche perché il terrorista ha utilizzato un’arma da fuoco come il fucile Kalashnikov. Molti hanno paragonato questa azione ai fatti di Parigi del novembre 2015, ma le due realtà sono molto diverse. In Francia aveva agito un’organizzazione strutturata, coordinata sul terreno, di più unità combattenti. Nella capitale belga, invece, è stato un singolo soggetto a colpire. Il punto è che l’ha fatto con un’arma particolare che ha attirato, in maniera giustamente opportuna ma forse anche spropositata, l’attenzione massmediatica. E lo ha fatto in un momento particolare, per cui tutto è stato contestualizzato alla guerra fra Israele e Hamas. Ma se vediamo nel dettaglio, il tunisino che ha colpito a Bruxelles ha rivendicato l’azione in nome dell’Isis e non in nome di Hamas».

Qual è allora la preoccupazione reale che devono o dovrebbero avere oggi i cittadini svizzeri e anche quelli europei?
«Il terrorismo è l’epifenomeno, la manifestazione violenta di un fatto sociale molto più ampio e molto più preoccupante che si chiama “ideologia”. E questo, in realtà, vale non soltanto per il terrorismo jihadista, ma anche per il terrorismo dell’estrema destra o degli anarchici insurrezionalisti, movimenti collegati tra loro in un rapporto di azione e reazione. Ora, sul piano quantitativo, guardando alla Svizzera, i numeri associati al terrorismo sono limitati ma degni comunque di attenzione. Preoccupano, invece, i numeri associati allo jihadismo, al fenomeno di diffusione ideologica. Un terreno su cui le forze di prevenzione, così come i servizi sociali o i servizi scolastici, dovrebbero essere coinvolti maggiormente».

Nel convegno di Lugano avete molto insistito sulla necessità di investire risorse in prevenzione.
«Certo, investire di più per prevenire significa poter intercettare subito i primi segnali d’allarme, prima cioè che intervengano le forze di sicurezza. Tornando ai timori dei cittadini, e per rispondere senza girare intorno alla sua domanda, la Svizzera è all’interno di un complesso europeo in cui ci sono Paesi come Francia, Belgio o Regno Unito con indici maggiori di radicalizzazione. Sia la minaccia dello jihadismo, sia quella del terrorismo sono quindi contenute. Ma l’attenzione deve rimanere elevata».

L’attentatore di Bruxelles era tunisino. È vero che proprio la Tunisia, a causa della povertà e dei gravi problemi sociali che la attraversano, è oggi uno dei Paesi in cui maggiore è il numero dei radicalizzati? E bisogna guardare con preoccupazione a quanti fuggono dalla Tunisia verso l’Europa?
«In effetti, la Tunisia rappresenta un campanello d’allarme reale per la sostanziale, limitata capacità dello Stato tunisino di fare percorsi di deradicalizzazione o di prevenzione. La situazione economica è disastrata, e il cammino di democratizzazione che aveva caratterizzato il Paese dopo le “Primavere arabe” è stato deviato. Se andiamo a guardare i dati statistici, vediamo come tra gli attentatori che hanno preso parte ad azioni terroristiche in Europa, e in particolar modo in Francia, la componente tunisina tenda ad aumentare in maniera progressiva. Parliamo spesso di soggetti di prima generazione, i quali compiono la loro azione terroristica in tempi molto brevi rispetto al loro arrivo in Europa, in alcuni casi anche giorni. Per cui sì, la Tunisia ci deve preoccupare, anche in virtù della sua prossimità geografica con il Sahel e l’area subsahariana, dove porzioni di territorio sono ormai sotto il controllo di organizzazioni e gruppi insurrezionali di orientamento jihadista».

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