L'editoriale

In Palestina una guerra senza vincitori

A sei mesi dallo spaventoso massacro compiuto dai terroristi di Hamas in territorio israeliano, l'esercito con la stella di David ha annunciato il suo ritiro dal sud della Striscia: non si tratta però di una svolta nel sanguinoso conflitto
Osvaldo Migotto
08.04.2024 06:00

Domenica, a sei mesi dallo spaventoso massacro compiuto dai terroristi di Hamas in territorio israeliano lo scorso 7 ottobre, che ha poi spinto lo Stato ebraico a lanciare una vasta operazione militare nella Striscia di Gaza, l’esercito con la stella di David ha annunciato il suo ritiro dal sud della Striscia. Non si tratta però di una svolta nel sanguinoso conflitto, come ha sottolineato il premier israeliano Netanyahu, secondo il quale la guerra continuerà fino a quando non verranno liberati i suoi connazionali tenuti in ostaggio dai miliziani islamici. 

Nella capitale egiziana è prevista in questi giorni la ripresa di negoziati volti a risolvere il dramma dei cittadini dello Stato ebraico finiti nelle mani di Hamas in quel tragico 7 ottobre. A sei mesi da quei drammatici fatti sono molti gli interrogativi a cui non è stata data ancora una chiara risposta. A cominciare dalle complicità su cui ha potuto contare Hamas per pianificare un’infiltrazione così micidiale nello Stato ebraico, oppure dai ritardi con cui le forze di sicurezza hanno reagito all’invasione da parte dei terroristi islamici. 

Il premier Netanyahu, appellandosi all’unità nazionale per far fronte alla dichiarazione di guerra dei tagliagole di Hamas, ha voluto dare la priorità a una massiccia risposta militare nei confronti dello spietato nemico, rinviando al dopoguerra l’esame degli errori commessi da intelligence ed esercito nel proteggere i confini. Tuttavia dopo sei mesi di intensi combattimenti che non hanno risparmiato la popolazione civile, il capo dell’Esecutivo israeliano non ha ancora ottenuto gli obiettivi prefissati; ieri ha parlato di vittoria a portata di mano, ma nel Paese non tutti la pensano così.

I suoi oppositori e i parenti dei 129 rapiti accusano il premier israeliano di non aver fatto abbastanza per riportare a casa gli ostaggi. In realtà una prima fase negoziale, avvenuta grazie alla mediazione del Qatar e dell’Egitto, aveva portato alla liberazione, lo scorso novembre, di oltre una ventina di persone (13 israeliani e alcuni stranieri), in cambio di una breve tregua militare e del rilascio dalle prigioni dello Stato ebraico di alcune decine di palestinesi. Ma poi il dialogo si è arenato, in parte per l’intransigenza di Hamas che chiede il completo ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, in parte a causa dei piani di Tel Aviv che vorrebbe imporre un controllo ancora più duro su quella striscia di territorio definita da anni da numerosi osservatori come il più grande carcere a cielo aperto del mondo. 

Il ritiro israeliano da Khan Yunis, la seconda città più popolosa della Striscia, non lascia dunque presagire nessun allentamento nel durissimo scontro militare in atto tra l’esercito con la stella di David e i terroristi di Hamas. La sorte degli ostaggi è appesa a un filo, ma anche il futuro politico di Netanyahu sembra segnato dagli errori commessi nella gestione della sicurezza del Paese. 

Il capo del Governo israeliano ha definito estremisti i suoi concittadini che a migliaia hanno manifestato contro di lui in questi giorni chiedendo la liberazione degli ostaggi a qualunque costo e le dimissioni del premier. Richieste chiaramente non facili da esaudire ma che indicano la crescente disperazione di una parte della popolazione di fronte a un conflitto che finora ha causato migliaia di morti, molti dei quali sono civili indifesi, senza portare a risultati concreti. Hamas oggi è tenuto a debita distanza dai confini dello Stato ebraico, ma ora il Paese è minacciato più che mai dall’Iran e da Hezbollah in Libano, mentre gli USA sono diventati molto critici nei confronti di Netanyahu. La guerra prosegue in Palestina, ma non si vedono chiari vincitori all’orizzonte.