La fragilità dell'Africa: «La pandemia è finita, largo alle vaccinazioni di base»

Negli ultimi tre anni, segnati dalla pandemia, 67 milioni di bambini non sono stati sottoposti alle vaccinazioni di routine o, nella migliore delle ipotesi, hanno ricevuto solo una parte dei preparati previsti. Lo afferma, in un rapporto, l’UNICEF che riconduce il problema a diversi fattori: sistemi sanitari al limite delle capacità, penuria di risorse, conflitti, fragilità e, ancora, calo della fiducia nella medicina. Possibile? Evidentemente sì.
La situazione, nello specifico, è molto sentita in Africa. Per capirne di più, ci siamo rivolti a Louis Vigneault-Dubois, portavoce di UNICEF per il continente che, da Johannesburg, spiega: «Già prima dell’emergenza COVID l’Africa lamentava sistemi sanitari piuttosto fragili, privi dei necessari finanziamenti e di persone. Avevamo riscontrato difficoltà a livello di vaccinazioni di routine per i bambini, con tassi di vaccinazione molto bassi in alcune regioni».
In che modo,
allora, il coronavirus ha peggiorato una situazione già di suo delicata?
«Durante la pandemia, molte risorse materiali e umane sono state riallocate per
rispondere all’emergenza. Era la cosa giusta da fare, dato che bisognava far
fronte a una pandemia. Ma i sistemi, appunto, erano già fragili. Il che ha
complicato e non poco la ripresa post COVID. Ora, come spiegato nel rapporto,
dopo tre anni abbiamo constatato che 12,7 milioni di bambini in Africa hanno
mancato alcune vaccinazioni di base o, peggio, 8,7 milioni di bambini non hanno
ricevuto alcun vaccino. Un caso, quest’ultimo, ancora più delicato dato che
questi bimbi non hanno alcun tipo di protezione contro malattie potenzialmente
pericolose».
Da anni, in
Africa, si parla di vaccinazioni contro malattie che l’Occidente ha contenuto anni
e anni fa. Domanda scontata: possibile che la situazione sia ancora così drammatica?
«Un dato su tutti: l’anno scorso, nel 2022, 34 dei 54 Paesi che compongono l’Africa
hanno dovuto far fronte a epidemie di morbillo, colera, polio. Malattie che,
tramite le vaccinazioni, possono essere evitate. Significa che una larga fetta
di popolazione non è protetta e questi virus, a differenza di altri continenti,
possono propagarsi».
Mettendoci
nei panni dell’UNICEF, di fronte a tutte queste difficoltà viene da dire: l’obiettivo
verrà mai raggiunto? Anche perché, lo dimostra il Sudan, l’Africa è pure un
continente politicamente spesso instabile.
«Non bisogna mai abbassare la guardia o darsi per vinti. È vero, ci sono Paesi
in guerra e diverse zone di conflitto. Bisogna ricordarlo, è importante farlo. Gli
interventi in queste regioni sono più complessi e difficili, eppure riusciamo lo
stesso a condurre e portare avanti campagne di vaccinazione. Per fortuna, non
tutto il continente è in guerra. E allora, altrove riusciamo a lavorare molto bene.
In particolare, spingendo sulla sanità a livello comunitario».


Può spiegarsi
meglio?
«A nostro giudizio, i governi non devono mettere l’accento solo sull’ammodernamento
degli ospedali nelle capitali, con servizi di alta gamma e tecnologia, ma
insistere nel portare la sanità anche nelle zone più remote e meno
raggiungibili. Nelle comunità, appunto. È qui che possiamo e dobbiamo
rinforzare le attività di vaccinazione. Soprattutto laddove ci sono molti
bambini con nessuna dose. Ecco, questi bambini non vengono certo nelle cliniche
cittadine. Tocca a noi andare da loro. L’UNICEF e i suoi partner, allora,
devono attuare una strategia diversa. Una strategia che preveda sempre di più
il contatto con la popolazione delle zone più remote, come dicevo».
Lei ha
parlato di risorse riallocate per rispondere all’emergenza COVID, eppure l’Africa
ha avuto un accesso ai vaccini anti-coronavirus molto complicato. Oltre al
danno, la beffa…
«Girerei la questione. In realtà, c’è stata molta generosità nell’aiutare l’Africa
durante la pandemia. Queste risorse, tuttavia, ora andrebbero riprogrammate. E
dovrebbero essere spostate, di nuovo, per rinforzare le vaccinazioni di base
per i bambini. È un aspetto, questo, che coinvolge grandi partner come gli
Stati Uniti o l’Unione Europea, ma anche i governi locali: il coronavirus,
oramai, è alle nostre spalle».
Fra i Paesi con
i tassi di vaccinazione più bassi c’è la Nigeria. Dove, guarda caso, circolava
e circola molta disinformazione. Le fake news, ad esempio, hanno caratterizzato
la campagna per le elezioni. È possibile stabilire un nesso fra questi due
aspetti?
«È un problema che, in Africa, esisteva anche prima della pandemia. Proprio per
questo, come UNICEF lavoriamo da anni a stretto contatto con i leader religiosi
e le organizzazioni comunitarie per educare e sensibilizzare la popolazione.
Banalmente, la mancanza di informazioni crea lo spazio alle fake news. Il
nostro approccio, allora, è quello di lavorare sul terreno, portando un’informazione
neutra e scientificamente solida. E spiegando ai genitori perché le
vaccinazioni sono importanti».


Paradossalmente,
ma nemmeno troppo, il fatto che in Africa circolino diverse malattie che l’Occidente
ha saputo contenere può essere una buona notizia? Riformuliamo: la popolazione
vede con i propri occhi che cosa succede quando si contraggono malattie come il
colera o la polio.
«Sì, queste malattie sono presenti. La popolazione le conosce, non fanno parte
di un passato oramai lontano. Per questo, se il vaccino è disponibile, se è
offerto ai genitori e, ancora, se per averlo non è necessario camminare per
chilometri verso una clinica, allora nella maggior parte dei casi il bambino riceve
le inoculazioni di base. Il punto, dunque, è lavorare per garantire il giusto
approvvigionamento».
Ecco, riallacciandoci
anche al discorso vaccini anti-COVID come può l’Africa sperare di avere,
sempre, abbastanza mezzi e risorse per migliorare la situazione?
«È un lavoro che va fatto assieme. Il nostro ruolo, inteso come UNICEF, è
quello di facilitatore. Ovvero, portiamo ogni attore al tavolo e lo spingiamo a
svolgere il proprio ruolo. I governi locali, come spiegavo, devono porre l’accento
sulle vaccinazioni di base. Vaccinazioni che devono diventare parte integrante
dei servizi sanitari offerti da un determinato Paese. Alla fine, è una
questione di volontà politica. E di far dialogare i vari attori, come il
settore privato per l’approvvigionamento e la vendita di vaccini a prezzi
abbordabili. L’Africa ha bisogno di dosi che arrivino su base regolare, non
solo nelle grandi città ma anche nelle campagne, dove la gente ne ha più
bisogno. Alle comunità e ai capi religiosi, invece, il compito di continuare il
lavoro di educazione».
