L'intervista

La Luna è solo un antipasto: «La tecnologia di Artemis ci porterà su Marte»

Artemis I è in rampa di lancio: ne abbiamo parlato con Paolo Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test (AIT) per l'ESM
Giacomo Butti
03.09.2022 06:00

Disturbata dagli stivali di un essere umano, cinquant'anni fa si sollevava l'ultima polvere lunare. L'immagine di un nostro simile che cammina (o, meglio, saltella) sulla superficie dell'unico satellite naturale della Terra, così fortemente impressa nelle menti delle generazioni che vi hanno assistito, potrebbe presto passare davanti agli occhi dei più giovani. Il grande ritorno dell'uomo sulla Luna sembra infatti vicino, vicinissimo, grazie al programma spaziale Artemis, nato dalla collaborazione fra NASA, ESA (Agenzia spaziale europea), JAXA (l'agenzia spaziale giapponese) e CSA (quella canadese).

Ma un passo così importante per l'umanità va fatto con le dovute precauzioni. Per questo, l'operazione prevede innanzitutto una prima missione, Artemis 1, senza equipaggio. Il nuovo gioiellino, la navicella Orion, sfreccerà dunque tutta sola verso la Luna e, nell'arco di una quarantina di giorni, permetterà di testare tutto il necessario per le prossime missioni, quelle che fra il 2024 e il 2025, se tutto va bene, vedranno gli astronauti uscire nuovamente dall'orbita terrestre bassa (che può estendersi fino a 2.000 chilometri dalla superficie del pianeta). Fatto che non avveniva dal 1972, con il termine del programma Apollo.

Orion sarebbe dovuta partire lunedì scorso, ma un problema rilevato a uno dei quattro motori RS-25, quelli del lanciatore statunitense SLS (Space Launch System), ha spinto la NASA a rinviare il countdown: «Safety first» (Prima di tutto la sicurezza), ha comunicato l'agenzia spaziale su Twitter.

Quando partirà la missione? La prossima finestra, ha fatto sapere la NASA, si aprirà sabato fra le 14.17 e le 16.17 (ora locale, le 20.17-22.17 ora svizzera).

Ma a lasciare il Kennedy Space Center (Florida), nella navicella Orion, ci sarà anche un pezzo di Europa. Come già evidenziato, l'ESA ha partecipato al progetto e il gigante europeo Airbus si è occupato della progettazione di una parte importante del veicolo: lo European Service Module (ESM). Qual è il contributo del nostro continente? E in che modo si è dimostrato determinante per la creazione di una navicella in grado di riportare l'uomo sulla Luna? Ne abbiamo parlato con Paolo Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test (AIT) per l'ESM. 

Paolo Artusio al Kennedy Space Center. Dietro di lui, la navicella Orion con l'SLS.
Paolo Artusio al Kennedy Space Center. Dietro di lui, la navicella Orion con l'SLS.

Cuore e polmoni

Per capire cos'è l'ESM, è innanzitutto importante conoscerne la posizione all'interno della navicella Orion. Il veicolo spaziale che porterà l'uomo sulla Luna (e oltre) è composto essenzialmente da tre parti più lo Space Launch System (SLS), definito «il più forte missile mai creato». I suoi motori, i già citati RS-25 che lunedì avevano avuto alcuni problemi, erano già stati utilizzati per le missioni degli Space Shuttle. L'SLS servirà a portare Orion in orbita, dove l'ultimo stadio del missile (l'Interim Cryogenic Propulsion Stage, ICPS) indirizzerà la navicella nella sua traiettoria verso la Luna, prima di separarsi. 

1: Sistema di interruzione di lancio. 2: Il modulo dell'equipaggio (Crew Module, CM). 3: Il modulo di servizio (European Service Module, ESM). In alto, il potente razzo SLS utilizzato per il lancio. © NASA
1: Sistema di interruzione di lancio. 2: Il modulo dell'equipaggio (Crew Module, CM). 3: Il modulo di servizio (European Service Module, ESM). In alto, il potente razzo SLS utilizzato per il lancio. © NASA

La navicella Orion, dicevamo, è composta da tre parti principali (vedi immagine). «Bisogna immaginarla come un sandwich: è costruito a strati», ci spiega Artusio. La parte superiore è il sistema di interruzione di lancio (1): posizionato su una torre in cima al modulo dell'equipaggio, può attivarsi in pochi millisecondi per riposizionare la navicella e indirizzarla verso un atterraggio sicuro. Il modulo dell'equipaggio (Crew Module, CM, 2), invece, è in grado di trasportare quattro astronauti oltre la Luna, fornendo un habitat sicuro dal lancio all'atterraggio e al recupero. Il modulo di servizio (European Service Module, ESM, 3), infine, fornisce supporto al CM: dalla propulsione nello spazio (una volta lasciato l'SLS) al controllo di energia, calore, acqua, aria. Airbus, su commissione dell'ESA, si è occupato proprio di realizzare quest'ultimo modulo, un elemento che il costruttore europeo, nella conferenza stampa tenutasi la scorsa settimana, ha definito «il cuore e i polmoni per le missioni lunari degli astronauti». Ma come è stato progettato? «L'ESM - ci spiega Artusio - è composto da una struttura rigida, uno scheletro costituito da due grosse piattaforme (superiore e inferiore) con pannelli in fibra di carbonio. A separarli sei longheroni in alluminio. È una struttura robusta ma leggera, un fattore importante del programma: Orion deve correre veloce per andare distante. Parte del nostro lavoro è stato proprio creare un design per creare un impianto della massa di sole 3,5 tonnellate a vuoto. Il modulo può alloggiare fino a 8,6 tonnellate di materiale e propellente».

Orion è come un sandwich: tanti strati uno sopra l'altro
Paolo Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test (AIT) per l'ESM

All'esterno dello scheletro, il sistema di propulsione, che servirà ad indirizzare Orion nel suo viaggio verso e dalla Luna. «Quattro grosse taniche in titanio trasportano il propellente liquido: il fuoco che alimenta il viaggio. Sono pressurizzate in modo da poter spingere il propellente nelle varie decine di metri di tubo che portano ai motori. Quello principale (l'Orbital Manoeuvring System Engine, OMS-E) proviene dagli Space shuttle ed ha una potenza di oltre 27 kN», spiega Artusio. «Otto propulsori (thruster) della potenza di 490 sostengono il motore principale, mentre lateralmente altri 24, posizionati nella parte cilindrica esterna, stabilizzano il volo della navicella». A collegare il tutto, dicevamo, una serie di tubi, una vera e propria «ragnatela di sistemi ridondanti al fine di ridurre al minimo i rischi di anomalie». La navigazione, ovviamente, è controllata al piano di sopra, nel Crew Module. «Ma i dati inviati dall'equipaggio vengono rielaborati dal nostro sistema. Da lì arrivano gli ordini per attivare o disattivare i thruster». E l'alimentazione? «Quella è fornita da quattro pannelli solari con un'apertura di 18 metri, sempre orientabili verso il Sole. Molto delicati, questi pannelli sono retrattili in caso di accelerazione della navicella e sono utilizzati su buona parte dei satelliti europei. Teoricamente sono in grado di produrre 11,2 kW di elettricità, sebbene ad alimentare Orion ne bastino 7,3. Le taniche del Consumable Storage System (CSS) si occupano invece di rifornire il modulo dell'equipaggio di ossigeno, nitrogeno e acqua».

A circondare scheletro, taniche e tubi, un guscio esterno in grado proteggere il modulo da calore, micrometeoriti e "spazzatura spaziale", resti di oggetti lanciati dall'uomo nello spazio. «Un problema serio. Oggi, rispetto al passato, le orbite terrestri basse sono intasate di oggetti. La stessa Stazione spaziale internazionale (ISS) è costretta a monitorarli per evitare le collisioni». 

Le collaborazioni

NASA. NASA. ESA. Nel "panino" di Orion gli strati sono molteplici e progettati da nazioni e aziende diverse. Collegarli per ottenere un unico mezzo funzionante non deve essere stato evidente, soprattutto considerato che non ogni aspetto della progettazione viene condiviso con gli altri partner. «Immaginiamo di comprare una Audi. A casa posso smontarla e osservare i componenti, ma non sono libero di entrare nelle loro fabbriche e vedere come sono progettate le auto. Il nostro settore è simile. I segreti industriali esistono, e gli americani e la sicurezza hanno un rapporto molto stretto», ci spiega Artusio. «Noi non abbiamo i dettagli dei loro design, loro non hanno i dettagli del nostro. È vero: la NASA è sicuramente in possesso di un maggior numero di informazioni sul nostro modulo rispetto alle nostre sul loro. Ma bisogna considerare che, di fatto, sono loro ad effettuare l'acquisto del nostro prodotto. Nel settore aerospaziale ci si può non dire tutto, ma la collaborazione è comunque estrema. È affascinante vedere come diverse nazioni e persone, così come ditte che normalmente sarebbero in competizione, lavorino insieme per uno scopo comune».

È affascinante vedere come, nel settore aerospaziale, diverse nazioni e persone, così come ditte che normalmente sarebbero in competizione, lavorino insieme per uno scopo comune
Paolo Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test (AIT) per l'ESM

E a proposito di collaborazioni: quella con la Russia, così importante per la Stazione spaziale internazionale (ISS), rischia di arrivare al termine. In luglio Roscosmos (l'agenzia spaziale russa) ha annunciato la sua «irrevocabile decisione» di abbandonare il progetto comune dell'ISS dopo il 2024, puntando alla creazione di una propria mini-stazione che, promette Mosca, sarà operativa dal 2028. Si chiamerà ROSS (Russian Orbital Service Station), e ospiterà cosmonauti solo per brevi periodi ogni anno, per operazioni specifiche e manutenzione: a differenza dell'ISS sarà infatti automatizzata e disabitata per buona parte del tempo, così da poter orbitare in zone più pericolose e a maggior rischio radiazioni.

La Stazione spaziale internazionale (ISS). ©NASA/Wikipedia
La Stazione spaziale internazionale (ISS). ©NASA/Wikipedia

La collaborazione della Russia, dicevamo, è vitale per l'ISS. Basti pensare che la Stazione è di per sé in continua "caduta": perde costantemente quota a causa di un leggero attrito atmosferico. Per questo ha bisogno di essere riportata all'altitudine prevista (tra i 278 e i 460 chilometri dalla superficie terrestre) più volte l'anno. Operazione, questa, che viene effettuata tramite i motori posizionati nel modulo di servizio Zvezda o quelli della navetta Progress, se attraccata all'ISS. Ed entrambi i mezzi sono progettati e gestiti dalla Russia. In poche parole, senza l'apporto di Mosca il proseguimento del progetto ISS potrebbe divenire complicato. Ma davvero la Russia abbandonerà i suoi partner impegnandosi nella non semplice missione di creare una stazione indipendente? «Penso non convenga a nessuno», commenta Artusio. «La politica è una questione, il settore aerospaziale è un'altra: sono due mondi differenti. Il progetto dell'ISS raccoglie culture diverse e le unisce raccogliendo il meglio di ogni nazione: determinazione, ostinazione, precisione. È bellissimo da vedere. Nella mia carriera ho potuto lavorare con tutti: europei, americani, russi, e penso (sarà la mia idea romantica), che torneremo a lavorare assieme per il progresso della scienza e dell'umanità. È così che si va più lontani». Senza considerare che collaborazioni come quella in atto fra pubblico e privato, fra ESA e Airbus, presentano tutta una serie di benefici a cascata. «Un progetto di questa entità ha feedback importanti su ogni Paese che vi partecipi. Vi lavorano miriadi di imprese con indotti importanti. Un esempio? I filtri d'acqua usati per la missione Artemis 1 provengono da una piccola azienda norvegese. Per quanto dall'esterno il settore spaziale possa sembrare sterile e fine a se stesso, dal punto di vista economico è in realtà molto florido. E buona parte delle tecnologie sviluppate per lo spazio poi vengono applicate in altri settori, in voli commerciali o in ambienti del tutto diversi». L'ingegnere torna dunque ad evidenziare: «Conviene a tutti continuare a lavorare insieme».

«Entriamo nella fase dei viaggi»

Ma torniamo alla nostra Artemis 1. L'idea, dicevamo, è di andare sulla Luna. Un progetto realizzato già oltre cinquant'anni fa. Perché rifarlo oggi? Perché NASA ed ESA hanno messo in piedi un'operazione che, a qualcuno, potrebbe sapere di déjà-vu? «L'evoluzione del rapporto fra uomo e spazio passa da momenti storici e politici, ma anche da fasi di studio», risponde Artusio. «Quando alla fine degli anni '60 l'uomo è arrivato sulla Luna, ci trovavamo in un periodo pionieristico, quello che potremmo chiamare "fase 0". Allora l'obiettivo era solo uno: arrivare prima degli altri». Ma terminata questa fase, ne è iniziata una nuova. «Con la fine del periodo pioneristico (che potremmo far coincidere con quella del progetto Apollo, nel 1972, ndr), è iniziato un percorso di studio e sperimentazione nell'orbita bassa terrestre. Un momento durato quarant'anni e che ha migliorato la relazione fra noi e lo spazio, portandoci dalla mera competizione alla collaborazione internazionale». Ma cosa c'entra tutto questo con il ritorno sulla Luna? «Una decina d'anni fa si è deciso di entrare nella nuova fase, quella dei viaggi spaziali. Stiamo parlando di un programma che va organizzato con estrema attenzione e a piccoli passi molto ponderati». L'allunaggio previsto per il 2025, insomma, fungerà da banco di prova. «Andare sulla Luna, testare la navicella, fare andata e ritorno. Sono tutti passaggi da eseguire prima di provare il viaggio verso Marte. Senza un test sulla Luna, non potremmo mai azzardare il viaggio verso un altro pianeta. Ecco perché torniamo sul nostro satellite: è un primo passo per andare oltre». 

Perché tornare sulla Luna? È un primo passo per andare oltre
Paolo Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test (AIT) per l'ESM

Safety first, diceva la NASA. E dunque avanti così con piccoli ma importantissimi passi che, uno alla volta, ci porteranno lontano. A questo punto non possiamo che chiedere ad Artusio, ingegnere responsabile delle attività di assemblaggio, integrazione e test dell'ESM, cosa lo preoccupi di più di questa e delle prossime missioni Artemis. Cosa può andare storto? «Ero un ragazzino quando il mondo ha assistito all'esplosione dello shuttle Challenger (era il 1986, ndr). Allora mi chiedevo cosa fosse successo. Cosa portò a un disastro simile? Cominciando a lavorare nel settore aerospaziale, mi sono reso conto che tutto era dovuto a una banalità. In un programma gigante come l'invio di uno shuttle si era fatto l'errore di sottovalutare un aspetto minuscolo, una guarnizione. Cosa che ha portato però all'incidente. Dire quali sono i rischi è dunque impossibile: tutto è pericoloso. E ogni elemento deve essere testato e ritestato, controllato affinché sia perfetto». È soprattutto per questo che il settore aerospaziale si muove, tutto sommato, lentamente: «Lo spazio non è un ambiente che incentivi grandi innovazioni. Prima di implementare dei cambi nella strumentazione si deve passare attraverso a fasi di sperimentazione intensiva. Prima sulla Terra, poi sui satelliti privi di equipaggio, infine sui moduli».

Ad Artusio chiediamo dunque se sia nervoso per il lancio. «Non ho dormito in queste notti. Non possiamo sbagliare: ne va della sicurezza degli astronauti in futuro (Artemis 2 sarà con equipaggio) e della reputazione di agenzie spaziali e aziende coinvolte. Un disastro come quello del Challenger è qualcosa che viene ricordato per generazioni. E noi abbiamo eseguito controlli serrati: ogni dettaglio, anche quello che può sembrare insignificante, può rivelarsi invece fondamentale».

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