L'esperto

Le proteste in Cina? Non è solo una questione di libertà e democrazia

Con Gianluigi Negro, professore associato di studi cinesi all'Università di Siena, analizziamo quanto sta succedendo a Pechino e nelle altre grandi città
© EPA/MARK R. CRISTINO
Federica Serrao
30.11.2022 14:00

Quarantene, lockdown, fabbriche in crisi e proteste. Diverse proteste. Nelle scorse ore, alcune grandi città cinesi, tra cui la capitale Pechino, sono state teatro di manifestazioni volte a denunciare la strategia zero COVID in vigore nel Paese, che impone severe misure di contenimento, tra cui lockdown prolungati e quarantene obbligatorie. Episodi di questo tipo si aggiungono a quelli degli scorsi giorni, che hanno visto protagonista Foxconn, la cosidetta «iPhone City» di Zhengzhou. Ma cosa sta succedendo, per davvero, in Cina? Lo abbiamo chiesto a Gianluigi Negro, professore associato di studi cinesi all'Università di Siena, autore del recente Le voci di Pechino. Come i media hanno costruito l’identità cinese (Luiss University Press, 2022).

Tra Cina e Occidente

«La Cina è molto grande: non è monolitica, ci sono tante città, tanti strati sociali, ma anche tante prospettive, tante situazioni economiche differenti e aziende diverse», chiarisce fin da subito il nostro interlocutore. «È vero, negli ultimi tempi si è registrato un certo tipo di risentimento, soprattutto nelle grandi città, in contesti più vicini alle sensibilità occidentali e internazionali, ma è necessario contestualizzare queste manifestazioni. Non è un caso che queste proteste, soprattutto a Pechino, abbiano avuto luogo nelle università». Questi ambienti, infatti, sono frequentati dalla popolazione giovane, che parla inglese e sa come aggirare la censura. «Tuttavia, quanto accaduto non è rappresentativo di tutti i giovani della Cina», avverte il professor Negro. «Guarda caso, il giorno dopo, abbiamo osservato interessanti contenuti online, da cui è emerso che in Cina ci sono ragazzi che cantano l'Internazionale». E questo, di preciso, cosa significa? «Le proteste degli ultimi giorni non sono tanto rivolte al sistema dittatoriale, ma al sistema attualmente in vigore in Cina, ossia il monopartitico, che non sta funzionando bene. Per questo sistema, paradossalmente, si chiede un intervento». Un tema ricorrente in Cina, specialmente nel corso dell'ultimo decennio, tra il 2010 e il 2013. «Già in passato, quando succedeva qualcosa di spiacevole a livello sociale, economico o politico vi erano delle proteste della popolazione locale indirizzate a un intervento da parte del governo centrale», ci spiega l'esperto, ricordandoci che la gestione istituzionale e politica della Cina si sviluppa in diverse declinazioni: dal livello centrale, a provinciale, locale o di contea. «Penso sia importantissimo sottolineare che in queste proteste c'è un dibattito molto frammentario. Vi è stato - e mi sorprende molto - un richiamo all'Internazionale. Quindi, non è solamente una questione di ricerca della libertà di espressione o di democrazia, quanto più un modo per chiedere al governo di fare bene il proprio lavoro. È vero che anche una richiesta di democrazia è comunque avvenuta in forme molto più pronunciate rispetto al recente passato, ma sicuramente in contesti diversi, molto più internazionali. E questo fa molto riflettere».

Galeotto fu l'incidente a Urumqi

Negli scorsi giorni, ad aver alimentato le proteste sono state – in parte –  anche le immagini in diretta da Doha, dove si stanno disputando i Mondiali di Calcio. Vedere i tifosi sugli spalti, senza mascherine e senza misure di sicurezza, ha portato alcuni cinesi a domandarsi «su quale pianeta si stesse effettivamente disputando la competizione». Ma come ci spiega il professor Negro, questi episodi non sono stati direttamente responsabili delle manifestazioni avvenute negli ultimi giorni, e soprattutto, non sono stati gli unici. «Le riprese televisive del Mondiale in Qatar hanno avuto più che altro la funzione di catalizzatori. A quanto pare, però, il vero pretesto che di fatto ha accelerato il senso di malcontento è stato l'incidente a Urumqi». Nella città, capitale della regione occidentale dello Xinjiang, giovedì scorso dieci persone hanno perso la vita in un incendio divampato in un condominio. Tutte e dieci le vittime, quando è divampato il rogo, si trovavano in isolamento per il COVID. Subito dopo il sinistro, le autorità di Urumqi hanno promesso di eliminare gradualmente le restrizioni in vigore nella città, ma hanno negato che le persone decedute non siano riuscite a fuggire dalle fiamme proprio a causa delle misure di sicurezza. «È stato questo tipo di episodio, tragico, a scatenare proteste e forme di solidarietà, anche in altre città della Cina, nonché ad aver portato a riflessioni sulle misure di contenimento per il COVID». 

Non è un caso che le proteste più note al pubblico occidentale siano state quelle di Pechino e Shanghai. In particolare, quest'ultima, la scorsa estate è stata letteralmente rinchiusa in un lockdown molto severo e molto lungo
Gianluigi Negro, professore associato di studi cinesi all'Università di Siena

Perché a Shanghai

Ma torniamo a parlare delle proteste e dei manifestanti che ne hanno preso parte. «Non è un caso che le proteste più note al pubblico occidentale siano state quelle di Pechino e Shanghai. In particolare, quest'ultima, la scorsa estate è stata letteralmente rinchiusa in un lockdown molto severo e molto lungo. Anche per questo motivo il senso di malcontento nei confronti del COVID è più pronunciato qui, rispetto ad altre città». Senza dimenticare la componente "occidentale". «Shanghai è una tappa internazionalizzata, dove è facile ottenere informazioni dall'estero. La popolazione è più giovanile e più legata al business internazionale. E in più ha vissuto sulla propria pelle questo tipo di contenimento draconiano del COVID, e di conseguenza è più portata a sottolineare alcuni aspetti di inconsistenza nei confronti delle misure cinesi, arrivando quindi a protestare».  

Cos'è successo davvero alla Foxconn?

A essere coinvolta e - al tempo stesso - in parte responsabile delle proteste, è stata anche la Foxconn. La fabbrica cinese di Zhengzhou è finita sotto i riflettori per le sue drastiche misure di contenimento e per la fuga di massa di dipendenti. Ma come ci spiega il professor Negro, i contorni della vicenda non sono esattamente quelli evidenziati per lo più online. «Sicuramente molti lavoratori hanno protestato per non aver percepito lo stipendio promesso, ma alla base del malcontento c'era anche la mancanza di comunicazione diretta tra azienda e dipendenti. E, soprattutto, tra gli altri motivi principali che hanno maggiormente causato le lamentele dei dipendenti vi sono lo scarso livello igienico e la scarsa implementazione delle regole di contenimento COVID all'interno della stessa fabbrica». Il contrario, dunque, di quanto emerso in un primo tempo. «Paradossalmente, una parte dei manifestanti della Foxconn è agli antipodi delle proteste che abbiamo invece registrato in alcune città della Cina. Queste persone si aspettavano un regime di massima sicurezza per contenere il virus, come annunciato dalla stessa azienda, e invece si sono trovati di fronte a una situazione disastrosa. Questo non è un attacco diretto al potere centrale o a Xi Jinping, o meglio, lo è solo in parte. Ci sono tante altre posizioni che richiamano a un intervento più consistente e più operativo del partito, per gestire in maniera più cristallina questa crisi».

Una realtà estremamente complessa

Tuttavia, non è facile ottenere informazioni precise sulla reale situazione della Cina. «La realtà è estremamente complessa, è estremamente difficile avere un quadro generale», osserva l'esperto. «È complicato ottenere informazioni dirette, quando ci sono così tante variabili e vasti contesti. La Cina è grandissima, ricordiamolo. Ma circoscrivere questo tipo di ragionamento, che sta alla base delle proteste, come un'unica critica a Xi Jinping mi sembra riduttivo. Non sto dicendo che non ci sia, perché è evidente il contrario. Sicuramente l'effetto novità c'è, perché una critica così diretta a Xi Jinping non si era mai verificata. Ma prima di trarre conclusioni, bisogna capire cosa accadrà prossimamente. Serve tempo, insomma. E in secondo luogo, è necessario comprendere anche cosa succede nelle altre città della Cina». 

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