Diario di viaggio

Lezioni di passato e di futuro dai ghiacci dell'Antartide

L’Antartide è semplicemente il luogo più lontano possibile da questo pianeta senza lasciare il pianeta – Il diario di un viaggio alla ricerca di risposte sulla crisi ambientale e sulle relazioni internazionali
Bruno Giussani
18.06.2022 06:00

L’Antartide è il luogo più lontano possibile da questo pianeta senza lasciare il pianeta. È la ragione principale per andarci e ascoltare che cosa ha da dirci sulla crisi ambientale e sulle relazioni internazionali.

La prima cosa che mi hanno chiesto quando ho detto di voler andare in Antartide è: e perché mai?

In effetti, perché mai visitare un continente che cento autori e diaristi hanno invariabilmente descritto come il luogo più alto, più secco, più ventoso e più freddo del pianeta, un vasto territorio che per la maggior parte non è mai stato calpestato da alcun essere umano?

A quel «perché» c’è una risposta che pure è stata citata cento volte, quella dell’alpinista George Mallory che nel 1923, a un giornalista che gli chiedeva perché intendesse scalare l’Everest, rispose: «Perché è là» («Because it’s there»). I territori estremi ci attirano perché sono «là»: sono lontani, di difficile accesso, poco accoglienti e possono offrire sensazioni uniche (o almeno permettere di vantarsi un po’) a chi intraprende il viaggio.

Io credo però che l’attrazione principale sia il fatto che sono, appunto, estremi. E l’Antartide è forse il più estremo.

Non ha storia umana

Pensate ad altre aree geografiche qualificabili come estreme. I deserti del mondo. Le regioni settentrionali del Canada, della Scandinavia o della Siberia. L’Himalaya. Tutti questi luoghi hanno una lunga storia umana indigena. Vi si son formate ed evolute società, culture, lingue. Poesie, forme, tradizioni e architetture.

L’unicità dell’Antartide è che non ha nulla di tutto ciò. Non ha storia umana. È uno spazio grande una volta e mezzo gli Stati Uniti dove non c’è mai stata una popolazione indigena. Certo, ci vivono diverse migliaia di persone, distribuite in qualche decina di basi e stazioni scientifiche, la maggior parte delle quali aperta solo durante l’estate. Ma arrivano tutte per brevi periodi da altri continenti. Fanno ricerca scientifica o sostengono i ricercatori, poi tornano a casa. Tutto il necessario - infrastrutture, energia, cibo - arriva per via aerea o marittima da altri continenti. Non c’è nulla in Antartide per supportare la vita umana. Ci sono infiniti altopiani ghiacciati, valli aride con una geologia e un aspetto quasi marziani, catene montuose inaccessibili coperte di ghiaccio, laghi subglaciali. Ci sono erbe e fiori di campo ai margini esterni, ci sono licheni e piccole piante, ma non c’è un solo albero in tutto il continente. L’unico cibo lo si trova nell’oceano: i pesci che si nutrono di plancton e krill. E nonostante la massa sconfinata di ghiaccio, la maggior parte del continente non ha neppure acqua, perché per sciogliere il ghiaccio (o per cucinare quel pesce) ci vuole legna o combustibile, che pure devono arrivare da un altro continente.

In una frase: l’Antartide è il luogo più lontano possibile da questo pianeta senza lasciare il pianeta.

E ciò la rende molto attraente.

La caratteristica dominante

Allora, perché andare in Antartide? Perché, essendo così estranea alla nostra esperienza umana, può offrire frammenti di risposta a domande fondamentali. Domande come: cosa stiamo facendo al pianeta che permette la vita? Oppure: sapremo vivere insieme in futuro in un modo pacifico e giusto?

Ho portato queste due domande con me quando sono andato in Antartide in dicembre, con un gruppo riunito da Insider Expeditions per il viaggio inaugurale di una nave dal design nuovo e più sostenibile, la Ocean Victory. Era l’inizio dell’estate (il continente sta ora entrando nell’inverno). A momenti, dapprima nella Georgia Australe e poi lungo la Penisola Antartica, ho avuto l’impressione di vedere frammenti delle Alpi svizzere scaricati direttamente nell’oceano - picchi simili al Cervino, ghiacciai come quelli che da noi stanno scomparendo. Ma in altri momenti ci siamo trovati come fuori dal mondo, in mezzo a colonie di centinaia di migliaia di pinguini, camminando tra le foche che dormivano sulle coste non coperte dal ghiaccio, navigando sui gommoni tra enormi iceberg, osservando le balene nuotare intorno alla nave.

La caratteristica dominante dell’Antartide, ovviamente, è il ghiaccio. Il 98 percento della sua massa continentale è permanentemente coperto di ghiaccio. È difficile capirne le dimensioni. Non sono sicuro che le cifre aiutino, ma eccole: ce ne sono 30 milioni di chilometri cubi, secondo gli scienziati inglesi della British Antarctic Survey. Ciò equivale a quasi 4 milioni di metri cubi di ghiaccio per persona sulla Terra.

Quel ghiaccio è la lente attraverso la quale affrontare la prima domanda, quella sul pianeta, il suo clima e noi.

© Bruno Giussani 
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L’impatto della CO2

C’è una grande varietà di ricerca scientifica condotta in Antartide. Per esempio, la trivellazione e lo studio dei carotaggi di ghiaccio. In mezzo al continente il ghiaccio ha uno spessore di oltre 3.000 metri. È il risultato di millenni di neve che s’è accumulata sopra altra neve, intrappolando minuscole bolle d’aria. Quando la neve si consolida in ghiaccio, quelle bolle rimangono al suo interno.

Gli scienziati hanno trivellato fino quasi al fondo, dove il ghiaccio è vecchio di circa 800.000 anni, più del doppio dei più antichi fossili conosciuti di Homo Sapiens. In altre parole, quelle carote di ghiaccio raccontano la storia della qualità dell’aria sul pianeta.

In quelle bolle d’aria ci sono composti come l’anidride carbonica (CO2). Misurandola è risultato che le concentrazioni di CO2 non sono mai state così elevate come lo sono oggi e che vanno di pari passo con la temperatura. Quando c’è più CO2 nell’aria le temperature sono più alte; quando ce n’è meno sono più basse. È stato così per centinaia di migliaia di anni. Le carote di ghiaccio dell’Antartide hanno chiuso il dibattito sul fatto che la CO2 abbia o no un impatto diretto sulle temperature terrestri. Ce l’ha.

Quella è la scienza che studia il passato profondo. E poi c’è la scienza che studia i fenomeni attuali ed esplora il futuro possibile, o probabile: quella che si occupa dello scioglimento dei ghiacci e dell’innalzamento del livello dei mari.

Ci sono parti dell’Antartide che si stanno riscaldando molto più velocemente di altre parti del mondo e hanno registrato nel marzo 2022 temperature di circa 40° centigradi sopra la media. (Un fenomeno simile è accaduto nell’Artico).

Grandi come città

Una cosa di cui non mi ero mai reso conto prima di andarci è che non tutto il ghiaccio in Antartide è uguale. Semplificando, ce ne sono quattro tipi: le calotte glaciali continentali e i ghiacciai; le barriere di ghiaccio; il ghiaccio marino; e gli iceberg.

L’interno del continente è ricoperto da due gigantesche calotte di ghiaccio, una a Est, l’altra a Ovest, congiunte come le ali di una farfalla. Il ghiaccio si muove lentamente ma continuamente: ecco perché, ad esempio, l’indicatore fisico che indica il Polo Sud deve essere spostato indietro di una decina di metri ogni anno. Più vicino alla costa le calotte glaciali si trasformano in enormi ghiacciai che possono muoversi molto più velocemente, alcuni fino a diverse centinaia di metri all’anno. Agiscono come un condotto che dirige il ghiaccio dall’interno verso il mare.

Laddove i ghiacciai si riversano nell’acqua iniziano a galleggiare, formando barriere di ghiaccio, che possono essere spesse ancora 1.000 metri. Agiscono come contrafforti, trattenendo i ghiacciai dietro di loro, e si assottigliano quando gli iceberg si staccano. Questi sono pezzi di ghiaccio che possono essere grandi come città. Galleggiano tra il ghiaccio marino e si allontanano verso nord, prima di sbrecciarsi e sciogliersi al contatto con acque più calde. Mentre le calotte glaciali, i ghiacciai, le barriere di ghiaccio e gli iceberg sono il prodotto della neve che cade sulla terraferma, il ghiaccio marino è soltanto acqua congelata; si forma in inverno e si scioglie in estate.

Dal punto di vista climatico l’aspetto fondamentale è cosa succede al livello del mare quando il ghiaccio si scioglie. Il ghiaccio ha una proprietà unica: galleggia nel proprio liquido e sposta tanta acqua quanto pesa. Ciò significa che quando il ghiaccio galleggiante si scioglie produce la stessa quantità di acqua che stava già spostando e il livello dell’acqua rimane lo stesso.

Quindi il ghiaccio marino, gli iceberg e persino le barriere di ghiaccio possono sciogliersi senza aumentare il livello del mare, perché stanno già galleggiando. Il centro delle preoccupazioni è pertanto il ghiaccio che si sposta dalla terra al mare. A causa del riscaldamento, le barriere di ghiaccio attorno a tutto il continente stanno iniziando a frantumarsi. L’abbiamo visto succedere: pezzi dei fronti screpolati delle barriere che si schiantano improvvisamente nell’acqua con un piccolo tuono. E quando ciò accade, c’è meno resistenza contro lo scivolamento in acqua dei ghiacciai retrostanti.

© Bruno Giussani 
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Il Thwaites

Forse avete letto del Thwaites, che è stato anche chiamato recentemente dalla stampa «il ghiacciaio del giorno del giudizio» («the Doomsday glacier»). È un enorme ghiacciaio con una piccola barriera di ghiaccio galleggiante che lo sostiene ed è una delle parti dell’Antartide più a rischio. La barriera di ghiaccio si sta sciogliendo dal basso, a causa delle acque profonde più calde. Si sta deteriorando in molti punti e se si spezza non ci sarà nulla a trattenere il gigantesco ghiacciaio che gli sta alle spalle.

Torniamo alla cifra che ho menzionato prima: l’Antartide è ricoperta da 30 milioni di chilometri cubi di ghiaccio. Il Thwaites è grande ma è solo una piccola, minuscola parte dell’Antartide: ha le dimensioni della Florida su un continente grande una volta e mezzo gli Stati Uniti. Se il Thwaites dovesse collassare e sciogliersi, gli scienziati ritengono che potrebbe alzare i mari intorno al globo di circa 65 cm. I ricercatori stanno anche esaminando altre barriere di ghiaccio che erano considerate stabili ma che ora mostrano una maggiore fragilità. È un fenomeno che durerà decenni, o secoli. Ma quello che l’Antartide sta gridando verso Nord (e da lì tutte le direzioni sono verso Nord) sul clima e su noi è un messaggio di urgenza: le cose stanno diventando molto più calde e molto più veloci.

Come un solo pianeta

La seconda domanda riguarda più la politica e la società, il modo in cui in futuro riusciremo a funzionare e lavorare insieme, come un solo pianeta.

L’Antartide non è di proprietà di nessun Paese. Nessuno ti chiede il passaporto quando arrivi. Vi si trovano dozzine di basi e stazioni scientifiche. I Paesi vicini come Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Cile hanno le loro. Le potenze marittime attuali e passate come Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Russia, Italia, Spagna, Germania e Francia hanno le loro. Il Giappone c’è, così come il Pakistan, l’India, la Corea del Sud e la Cina che hanno aperto le due più recenti, nel 2014. Anche l’Ucraina ne ha una. La Svizzera no. In generale esiste una buona collaborazione tra di loro e sebbene la National Science Foundation degli Stati Uniti mantenga la «capitale non ufficiale» dell’Antartide - la base di McMurdo, operativa tutto l’anno - gli americani non hanno più voce in capitolo degli altri su quanto accade sul continente.

Questo perché l’Antartide è protetta dal Trattato Antartico, firmato nel 1959 e che arriverà a scadenza nel 2048. È completato da un paio di accordi connessi che sono stati stabiliti in seguito e insieme formano il «Sistema del Trattato Antartico». Sostanzialmente dicono che il continente è una riserva naturale di proprietà dell’umanità intera e può essere utilizzato solo per scopi scientifici e pacifici.

La forza del Trattato

Un fatto molto interessante sul Trattato Antartico è la data della sua firma, che fa eco con oggi: il 1959 era un momento di forti tensioni internazionali, soprattutto intorno alla minaccia nucleare. Per contesto: due anni più tardi iniziò la costruzione del muro di Berlino e dopo un altro anno gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica schierarono missili l’uno alle porte dell’altro, rispettivamente in Italia e Turchia e a Cuba (dove lo scontro degenerò nella cosiddetta crisi dei missili cubani).

Insomma, nel periodo forse più freddo della Guerra fredda, il mondo riuscì ad unirsi, sospinto dagli scienziati, e a concordare sul fatto che quel grande spazio non si sarebbe potuto toccare se non per scopi di ricerca scientifica pacifica. Dodici Paesi firmarono l’accordo, inclusi gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica (ora Russia). E tutti gli altri l’hanno rispettato.

Fra i motivi per cui fu stabilito il Trattato: evitare che l’Antartide diventasse un altro terreno di prova per le bombe nucleari, come era stato il caso di diversi atolli del Pacifico. Ma l’accordo vieta anche esplicitamente lo sfruttamento minerario e commerciale. Non sono sicuro che un tale accordo sarebbe possibile nel contesto odierno, nonostante le organizzazioni internazionali e il fatto che il mondo sia più interconnesso e interdipendente (e malgrado tutto ciò che ora sappiamo sul rischio climatico).

© Bruno Giussani 
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Quarantamila turisti

Naturalmente, quelle stazioni scientifiche sono anche avamposti geopolitici, per avere una presenza, infrastrutture, conoscenze locali e quindi disporre di una leva per il futuro. E naturalmente nel 1959 c’era molta meno conoscenza dei potenziali giacimenti di combustibili fossili e minerali nascosti sotto i ghiacci e le acque dell’Antartide. Ma per ora, e dal 1959, è stata tutta scienza - e, bisogna aggiungere, scienza ottima e importante - e la presenza militare è limitata ad alcune navi di supporto o rompighiaccio o velivoli che trasportano attrezzature e personale. La presenza commerciale è quasi nulla, a parte circa quarantamila turisti che vi si recano ogni anno - io fra loro - seguendo regole molto rigide stabilite in quegli accordi.

Non si può evitare una sensazione da origine del mondo, arrivando in Antartide. I ghiacciai, l’enorme fisicità, la bellezza incontaminata, la luce, i venti, l’aria pulita e frizzante, lo strepitare incessante di centinaia di migliaia di pinguini, la coda della balena che scompare nell’acqua, l’aspetto preistorico degli elefanti marini. Sono messaggi importanti, quelli che ci invia l’Antartide. È ora di iniziare a pensare a rinnovare il Trattato che protegge questo luogo unico. Nella temporalità diplomatica, il 2048 non è poi così lontano. Per cui la domanda diventa: saremo in grado di unirci, come hanno fatto i governi del 1959 nonostante le tensioni, o abbandoneremo l’Antartide, il territorio più estremo, all’infinita ingegnosità umana per lo sfruttamento della natura? Il modo collaborativo in cui l’Antartide è governata è un’ispirazione. L’esistenza stessa di questo grande spazio che non fa parte dei confini nazionali di nessun Paese e dove la nazionalità conta meno della capacità di andare d’accordo con i nostri simili, è una sfida al nostro modo transazionale e conflittuale di pensare alla «governance» globale e alle relazioni internazionali. Il rinnovamento del Trattato Antartico mette in gioco tutta la nostra capacità di riconoscere un interesse collettivo superiore. E di rispettarlo.