Odessa aspetta il suo destino
La statua del Duca di Richelieu, governatore di Odessa sotto lo zar Alessandro I dal 1801 al 1812, è completamente coperta da sacchi di sabbia. Hanno lasciato liberi soltanto gli occhi, lo sguardo diretto sul Mar Nero, come a voler tenere sotto controllo, dalla collina, l’avanzata delle navi da guerra russe: da qui al porto di Odessa, scendendo a piedi per l’immensa scalinata Potëmkin, servono meno di dieci minuti. Oggi, però, non ci si può nemmeno avvicinare: l’esercito ucraino è in stato di massima allerta. Le vie del centro, già barricate, sono quasi tutte chiuse al traffico. È vietato anche soltanto avvicinarsi a qualsiasi zona dalla quale sia possibile vedere, controllare, il mare, che è zona completamente off limits, con le bellissime spiagge di Arcadia, Lanzheron, Otrada, ormai disseminate di mine anti-uomo. L’entrata del teatro nazionale, in fondo alla via Rishelievska, è circondata da un cordone di pietre, copertoni, buste di terra. Di fronte, a un centinaio di metri, un check-point militare con altra sabbia a ricoprire vecchi pneumatici, un capannello di panchine rosse accatastate l’una sopra all’altra, lastroni di cemento armato e terra e poi una bandiera ucraina che porta addosso le firme di tutti i soldati che si alternano al posto di controllo, il giallo e l’azzurro che sventolano forti alle spalle del giovanissimo militare di guardia, bardato con fucile a spalla, elmetto e passamontagna, una fessura flebile a lasciare scoperta la timida finestra attraverso cui poter aprire gli occhi. Odessa è in silenzio. Per le strade acciottolate di via Deribasyvska, all’angolo con l’Amsterdam Hotel, si allunga un’infinita distesa di ostacoli anticarro.
Il simbolo multiculturale dell’Ucraina più moderna, il cuore pulsante della cultura, ma anche l’anima più leggera del divertimento, si è spento in attesa di difendersi dall’attacco russo. In seicentomila, del milione che la abitano, se ne sono già andati, quasi tutti in Moldavia, attraverso il vicino confine di Palanca. «La chiamiamo Mamma Odessa perché è una città che, nel tempo, ha accolto tutti. I greci e gli armeni, i russi, gli ebrei, gli italiani, ma è anche una città molto orgogliosa e non si arrenderà facilmente se dovesse finalmente arrivare un attacco: qui sono rimasti soltanto quelli che hanno intenzione di difenderla a qualsiasi costo». Darya è un’insegnante di pianoforte di 35 anni che dall’inizio della guerra fa parte di un gruppo di volontari che ha trasformato il ristorante Queen Odessa, vicino alla zona delle spiagge, in una delle tante cucine che preparano e distribuiscono, gratuitamente, i pasti per l’esercito impegnato al fronte nella difesa della città. «Ho cercato di arruolarmi volontario, ma mi hanno rimandato a casa. Sono già in tanti, mi hanno detto, e non ci sono abbastanza armi, né il tempo per formarmi. Ma io sono rimasto lo stesso: se i russi attaccano, ci sarà bisogno di tutti – dice Andryii, 21 anni, studente di informatica che, prima della guerra, sbarcava il lunario consegnando cibo a domicilio e che oggi passa il suo tempo, insieme ad altre decine di abitanti di Odessa, al poligono di tiro, dove sta imparando a sparare – ci resta soltanto da aspettare, ed è una sensazione tremenda. Vivere in questa città svuotata, cupa, nell’attesa di essere colpiti».


Le sirene tornano a suonare
I bombardamenti delle navi da guerra russe sulla costa di
Tuzla, novanta chilometri a Sud dalla città, hanno riacceso il timore di un
attacco imminente. Le sirene, dopo più di dieci giorni di calma, sono tornate a
suonare senza sosta nelle notti di quest’inizio settimana, con la popolazione a
rinchiudersi in bunker e cantine, mentre le quattordici navi della flotta
dell’esercito russo proseguono le loro manovre di avvicinamento. Odessa, sin
dall’inizio del conflitto, è considerata un punto di snodo cruciale per i piani
strategici di Putin. Con la conquista della città Mosca avrebbe infatti,
considerata la distruzione messa in atto a Mariupol e i bombardamenti costanti
cui sono sottoposte Kherson e Berdiansk, il controllo dei più importanti porti
ucraini sul Mar Nero. Secondo gli analisti di intelligence, l’esercito russo
non è ancora riuscito ad affondare il colpo solo grazie alla strenua resistenza
mostrata dalla città di Mykolaiv, centotrenta chilometri più a est, di fatto
l’ultimo ostacolo di rilievo che separa i carri armati di Mosca dalla terza
città del Paese. «Qui fuori, tutte le mattine presto, ancora sino ad appena tre
settimane fa, c’era sempre una lunga fila di persone che aspettava di comprare
il caffè prima di andare a lavoro – racconta Leonid, barista al caffè
Kachorovska, nella centralissima via Bunina, a un passo dal Museo d’Arte
Occidentale, di fronte al quale si stende oggi una lunga fila di ferraglie
anticarro e filo spinato – e invece adesso guardati intorno: c’è il vuoto, se
ne sono andati via tutti. Eppure, non succede niente. Sentiamo le sirene,
andiamo nei sottoscala, guardiamo le notizie degli attacchi a Kiev, a Kharkiv,
e così costruiamo lentamente la nostra paura. Allora io ogni tanto mi fermo e
sogno. Immagino che forse non è vero che c’è la guerra, che è tutto nella mia
testa. Domani mi sveglio, penso, vengo a lavorare, ed è tutto finito, come se
non sia mai successo».