Quando la Corea del Nord rapiva cittadini giapponesi
Sembra la trama di un film. Invece, è tutto vero. Talmente vero che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, lunedì ha incontrato le famiglie dei cittadini giapponesi rapiti dalla Corea del Nord fra gli anni Settanta e Ottanta. Biden, in particolare, ha mostrato sostegno agli sforzi di queste famiglie, che da tempo oramai auspicano il ritorno dei loro cari. Un ritorno difficile, se non impossibile.
Fra ammissioni e insabbiamenti
Il governo nipponico afferma che la Corea, nei decenni citati, ha rapito almeno 17 cittadini giapponesi. Ma, forse, il numero reale sarebbe superiore. In ogni caso, dodici persone ad oggi risultano disperse.
Furono rapiti, attenzione, anche bambini in età scolare. Molti furono stipati in piccole imbarcazioni e portati, via mare, verso la Corea del Nord.
Detto questo, perché mai Pyongyang avviò un’operazione tanto crudele quanto assurda? Questioni di spionaggio, a quanto pare, e nello specifico di operazioni in Corea del Sud sotto mentite spoglie (giapponesi, appunto).
Nel 2002, Pyongyang fece le prime, parziali ammissioni al riguardo e inviò pure le scuse del caso a Tokyo. Secondo le autorità coreane, vennero rapiti «solo» 13 cittadini giapponesi. A cinque di loro fu consentito di tornare a casa, altri otto invece nel frattempo erano deceduti mentre quattro non sarebbero mai entrati in territorio nordcoreano. Di più, Pyongyang promise una nuova indagine. Da allora, però, non se n’è più saputo nulla.
Secondo il Giappone, la Corea non ha rimandato a casa tutte le persone rapite perché temeva che alcuni potessero rivelare informazioni «scomode» sul Paese, chiusissimo (anzi ermetico) verso l’esterno.
Per dire: nel novembre del 1987 l’agente nordcoreano Kim Hyon-Hui fece saltare in aria un aereo sudcoreano. Per l’occasione, si spacciò per giapponese. In seguito, ammise di aver imparato la lingua nipponica da una persona rapita, la signora Taguchi Yaeko. Pyongyang negò il suo coinvolgimento nell’incidente e, va da sé, non liberò mai Yaeko proprio per paura che potesse rivelare qualcosa in merito.
I gesti del presidente
Biden, hanno riferito i famigliari delle persone rapite, si è mostrato comprensivo, sincero e aperto durante l’incontro. Il presidente statunitense è rimasto particolarmente colpito dalla storia di Sakie Yokota, oggi 86 anni. Sua figlia Megumi, all’epoca tredicenne, fu rapita nel 1977 mentre tornava a casa da scuola. Da genitore che ha perso due figli, Biden ha detto di comprendere il dolore di Yokota.
L’intera vicenda, hanno spiegato le famiglie, evidenzia una volta di più le violazioni dei diritti umani messe in atto negli anni dal regime nordcoreano.
E la comunità internazionale?
Il governo giapponese, dal canto suo, ha fatto del rimpatrio di queste persone una priorità dell’agenda politica. Più volte ha chiesto a Pyongyang di rilasciare i cittadini nipponici ancora nelle mani del regime mentre il primo ministro Fumio Kishida ha dato la sua disponibilità a incontrare Kim Jong Un.
Finora, però, l’agognata svolta non c’è stata. E intanto madri e padri di coloro che, negli anni Settanta e Ottanta, erano solo bambini stanno invecchiando. Giappone e Corea del Nord, d’altronde, non hanno alcun legame diplomatico e gli sforzi per arrivare a una soluzione si sono arenati a causa dell’insistenza di Pyongyang nel portare avanti il programma nucleare e missilistico, sinonimo di sanzioni da parte di Tokyo.
Il caso, per forza di cose, è finito balzato anche agli onori della cronaca internazionale. Non solo, dalla relazione finale pubblicata dalla Commissione d’inchiesta sui diritti umani nella Repubblica Democratica popolare di Corea, siamo nel 2014, risulta che le vittime di rapimenti non provengono solo dal Giappone ma anche da Corea del Sud, Libano, Thailandia, Malesia, Singapore, Romania, Francia, Italia, Paesi Bassi e Cina.
Nello stesso anno, una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, basata proprio sui risultati dell’inchiesta, chiese a Pyongyang di risolvere immediatamente la questione dei rapimenti. Una richiesta che si rinnova di anno in anno. Senza, per ora, trovare una risposta o quantomeno un interlocutore pronto a collaborare.