Energia

Quanto vale l'oleodotto Druzhba?

Eredità dell'Unione Sovietica, è stato risparmiato dal sesto pacchetto di sanzioni dell'Unione Europea
Marcello Pelizzari
06.06.2022 06:00

Druzhba. O, se preferite, amicizia. Anche se nelle ultime settimane questo oleodotto ha generato (quasi) solo liti e dissapori fra i 27 Stati membri dell’UE. Arrivando a disunire l’Europa. Fino al compromesso dei giorni scorsi: sì all’eliminazione, graduale, del petrolio russo entro la fine dell’anno. Ma con un’eccezione, legata appunto agli oleodotti. Questo, in estrema sintesi, il sesto pacchetto di sanzioni nei confronti di Mosca.

Che cos'è Druzhba

Druzhba, leggiamo, con una rete di 5.500 chilometri è l’oleodotto più lungo del mondo. Oggi è gestito dal colosso a partecipazione (e controllo) statale Transneft, tuttavia la sua costruzione risale agli anni Sessanta e, quindi, all’Unione Sovietica. Fornisce alle raffinerie di Germania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia il petrolio proveniente dagli Urali, dalla Siberia occidentale e dal Mar Caspio. Da quei tubi, ogni giorno, passano tra i 750 e gli 800 mila barili di greggio. Greggio che, in seguito, viene appunto raffinato in diesel, nafta, benzina e altri prodotti.

L’oleodotto, negli anni, è diventato una fonte di impieghi (diretti e indiretti) assumendo, di riflesso, un’importanza centrale per diversi Paesi. I quali, rovesciando la questione, si sono ritrovati prigionieri, sul fronte energetico, della Russia. 

Non è un caso, secondo gli analisti, se questo pacchetto di sanzioni, annunciato in pompa magna, abbia avuto una gestazione così lunga e laboriosa. Soprattutto se pensiamo che, al primo giro, la presidente della Commissione Europea Ursula von Der Leyen aveva proposto l’embargo alle importazioni via mare e via oleodotto. Ad alzare la voce, in particolare, erano stati l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, membri UE senza alcuno sbocco sul mare e fortemente dipendenti dal petrolio di Mosca.

Perché l'eccezione

Il governo slovacco, ad esempio, ha avanzato più di una preoccupazione legata all’unica raffineria del Paese: per riadattare le tecnologie a un greggio più leggero (quello russo è infatti più pesante) avrebbe dovuto investire 250 milioni di euro. Senza contare i tempi. Budapest, per riadattare i propri impianti, aveva alzato addirittura il tiro: ci servono 550 milioni di euro. La Repubblica Ceca, infine, chiedeva un’esenzione almeno fino al giugno del 2024, il tempo necessario per espandere la capacità dell’oleodotto transalpino che, da Trieste, trasporta petrolio non russo.

Alla fine, detto delle strategie politiche, soprattutto da parte del leader ungherese Viktor Orban, detto anche della difficoltà di trovare alternative nell’immediato e delle inevitabili ripercussioni economiche, l’Unione ha retto. Di più, scegliendo la via del compromesso ha evitato di sgretolarsi di fronte al sesto pacchetto di sanzioni.

Un territorio inesplorato?

Dicevamo dell’Unione Sovietica. Druzhba, in effetti, nacque nel dicembre del 1959 durante una sessione del Comecon, il Consiglio di mutua assistenza economica. L’accordo prevedeva la costruzione di un oleodotto per trasportare il greggio dall’URSS a Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca e infine Ungheria. Ogni Paese avrebbe fornito i materiali necessari, oltre alla manodopera. Nel 1962, il petrolio raggiunse la Cecoslovacchia per la prima volta. L’anno successivo toccò agli altri. L’intera struttura, però, entrò in funzione nel 1964.

Tornando al presente, si è discusso molto sull’esenzione e sul fatto che, apparentemente, sia illimitata. Per alcuni, infatti, l’eccezione concessa alle importazioni via oleodotto minerebbe l’intero pacchetto o, quantomeno, renderebbe meno forte lo stop al petrolio russo. Va ricordato, tuttavia, che le importazioni via mare rappresentano oltre due terzi degli acquisti giornalieri di petrolio russo da parte dell’UE.

Il blocco, d’altronde, è (era) il primo cliente di Mosca a livello di oro nero. Prima dell’invasione, le stime parlavano di 3,5 milioni di barili al giorno importati per un valore totale, nel 2021, pari a 74 miliardi di euro. Frenare questo business era, altresì, un obbligo morale: con la vendita di combustibili fossili, finora, il Cremlino ha finanziato la guerra in Ucraina e, ancora, fatto risalire il rublo. Detto ciò, voltare pagina non sarà evidente. Da un lato perché il petrolio degli Urali è fortemente scontato rispetto al Brent di riferimento e, dall’altro, perché l’embargo potrebbe spingere gli altri fornitori ad alzare i prezzi o, meglio, a sfruttare il momento.

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