Profughi

«Non è la prima volta che rispondiamo con questa empatia»

In queste settimane sono stati proposti vari confronti con ondate migratorie del passato - Con il professor Piguet, dell’Università di Neuchâtel, proviamo a definire quanto stiamo vivendo
Paolo Galli
16.03.2022 06:00

Etienne Piguet è professore di geografia all’Università di Neuchâtel e vicepresidente della commissione federale della migrazione. Con lui cerchiamo di capire quali siano i tratti che caratterizzano questa ondata migratoria rispetto ad altre, precedenti, già vissute dal nostro Paese. «Ci sono tratti che la rendono particolare, è vero, anche se ci sono pure alcune somiglianze con quanto già vissuto in passato. Citando due tratti, il primo è la velocità con cui questa ondata si è generata. È stato qualcosa di molto brusco e brutale. La situazione è precipitata nel giro di pochi giorni. In passato, ci sono stati altri arrivi improvvisi, ma da situazioni di crisi di lunga durata. Se prendiamo il caso della Siria, la crisi era iniziata già nel 2011, e poi ci fu una migrazione progressiva, nei Paesi limitrofi e poi gradualmente anche altrove, sin qui, con l’inasprirsi del conflitto». Un secondo elemento da riconoscere è riferito alle frontiere dell’Ucraina, che guardano sull’Europa. «Quindi un discorso di prossimità: non ci sono Paesi tra l’Ucraina e l’UE. Tornando alla Siria, pur non lontanissima, rispetto all’UE ha la Turchia di mezzo. E poi si affaccia su altri Stati che ne hanno accolto i migranti, come Libano e Giordania».

Donne e bambini

La prima immagine che abbiamo dei migranti ucraini è quella delle mamme con i loro bambini. Poi è difficile dire sul lungo periodo da chi sarà realmente composta questa ondata. «È vero che sin qui i primi profughi sono soprattutto donne e bambini, ma in un secondo tempo potrebbero giungere anche uomini», azzarda Piguet. «Anche questo è un elemento che caratterizza questa ondata rispetto ad altre, invece composte soprattutto da giovani uomini. Questo cambia un po’ lo sguardo che abbiamo sul momento che stiamo vivendo». Ma, secondo il professore, non è corretto parlare di un’empatia inedita, da parte dell’Occidente. «Bisogna un po’ sfumare i ricordi relativi a episodi passati. Mi è capitato spesso, in questi giorni, di trovare l’argomentazione secondo cui ci sarebbe una differenza assoluta in termini di accoglienza, nettamente più generosa oggi rispetto al passato, a un passato che secondo queste tesi sarebbe caratterizzato da un rifiuto dei migranti. Ebbene, c’è del vero, nel senso che oggi assistiamo davvero a una grande apertura e che ieri abbiamo vissuto episodi di chiusura». Ma non possiamo fermarci qua. «Dobbiamo ricordare anche momenti già vissuti di spiccata apertura nei confronti dei migranti, magari di più corta durata, ma comunque da rilevare. Nel 1999, per esempio, nel momento più forte della crisi in Kosovo, per un certo periodo venne creato un ponte aereo verso l’Europa per chi fuggiva dalle zone colpite. Per alcune settimane ci fu una grande apertura. Poi le cose, è vero, cambiarono. Lo stesso con la Siria, nonostante tutto. Nell’estate del 2015, quando Angela Merkel disse “Accoglieremo tutti i siriani”, assistemmo a momenti di grande generosità». Momenti, fasi, ma non possiamo dimenticare il passato nella sua interezza. La solidarietà a volte è legata a un momento storico. «In questo momento storico, abbiamo coscienza delle persone che dobbiamo proteggere, ma non possiamo sapere cosa sarà questa solidarietà nei confronti degli ucraini tra tre o sei mesi».

La visione dell'asilo è cambiata, ora non si temono più aspetti dell'integrazione come il lavoro
Etienne Piguet, vicepresidente CFM

E allora diventa quasi paradossale chiedersi perché oggi siamo tanto aperti. Etienne Piguet in effetti argomenta: «Sì, perché non possiamo spiegare simmetricamente, rispetto a episodi del passato, un’attuale apertura nei confronti dei migranti. E lo stesso vale per periodi di maggiore chiusura. È pericoloso semplificare la spiegazione dell’apertura attuale attraverso l’argomento “sono bianchi, cristiani, somigliano a noi” e della chiusura rispetto ad altri profughi dicendo “sono musulmani e diversi da noi”. Per una parte della popolazione, si tratta di un elemento di spiegazione, certo, ma non è l’unico. Fingere che lo sia è un po’ come ritenere l’Europa colpevole di essere aperta nei confronti degli ucraini».

L’integrazione

Possiamo presumere che, di base, i profughi ucraini abbiano la volontà di rientrare appena possibile nel loro Paese. È, questo, in fondo, uno dei motivi che hanno spinto la Confederazione a attivare lo statuto di protezione S. Questo fatto come ne influenzerà l’integrazione? «In termini di integrazione, potrebbero esserci meno misure attive». Ma è anche vero, sottolinea sempre il professore, «che nel corso degli ultimi decenni ci si è accorti che alcuni aspetti dell’integrazione, come l’accesso al lavoro, non sono in contraddizione con una successiva partenza dei profughi verso il loro Paese». C’è stata insomma un’evoluzione della visione che abbiamo dell’accoglienza. «Negli anni Ottanta e ancora nei Novanta c’era questa idea di ostacolare l’accesso al lavoro ai richiedenti l’asilo, in modo da facilitarne poi un ritorno in patria. Ebbene, questa idea è da considerarsi superata. Addirittura, i profughi potrebbero persino rientrare più facilmente nel Paese d’origine dopo aver lavorato nel Paese ospitante. Gli studi sui ritorni dei profughi, compresi quelli dei Balcani, hanno in pratica ribaltato quella che era la precedente visione». La decisione se rientrare o meno non è legata al grado di integrazione. Tutto è relativo ai progetti dei singoli profughi.

Tre milioni di persone hanno già lasciato l'Ucraina in guerra per raggiungere altri Stati, oltre 5.000 solo in Svizzera

Statuto S e scolarizzazione. Anche in questo caso va fatta una riflessione. E le domande non troveranno semplici risposte. Anche il professor Piguet spiega: «La scolarizzazione è un obbligo, certo. Ricevere un’educazione è un diritto fondamentale dei bambini. E lo statuto S lo permette. Uno sforzo quindi che dobbiamo a ogni bambino che arriverà in Svizzera. Poi non è facile individuare l’ideale risposta alle necessità. Quali contenuti insegnare, si quale programma puntare, quello del Paese d’origine o quello del Paese che accoglie? Lo stesso Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati ci riflette da tempo. E non ci sono risposte perfette o univoche. Domande difficili, che dobbiamo comunque porci».

Due differenti dimensioni

Una domanda che è lecito porre a Etienne Piguet, anche sulla base di quanto da lui scritto nel saggio Asile et réfugiés; repenser la protection, è se e come questa esperienza potrà influenzare il nostro approccio all’accoglienza. Ancora non sappiamo cosa ne sarà di questa esperienza, è vero, ma a quali aspetti dovremo porre attenzione? «Ho sempre sostenuto che ci sono due componenti nell’accoglienza dei profughi: una deve offrire prospettive a lungo termine a chi ottiene lo statuto di rifugiato; e un’altra deve però garantire protezione temporanea nelle crisi acute. L’esempio già noto: quello, già citato, del Kosovo. Allora ci trovammo a ospitare tante persone in un breve lasso di tempo. E riuscimmo ad accogliere tante persone proprio perché la permanenza prevista non era sul lungo periodo. Ora potremo capire se, effettivamente, questo strumento di protezione temporaneo - lo statuto S - potrà servire a proteggere più persone in un periodo così corto. Poi, certo, se la crisi dovesse durare a lungo, entrerebbe in gioco la prima componente e dovremmo garantire ai profughi un’integrazione sul lungo termine. Ma l’asilo non va pensato solo in una dimensione definitiva».

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