«Non ho scelto di fare l'attore per mettermi in mostra»
«In realtà cerco di non prendermi troppo sul serio». Mi spiazza subito Matt Dillon, mentre inizio l’intervista congratulandomi con lui per la professionalità che mette in tutto quello che fa. Ma poi si corregge: «In realtà quando si tratta di lavoro, mi piace fare sul serio».
Ed è davvero un riconoscimento meritatissimo, il Lifetime Achievement Award di ieri sera per un attore che ha attraversato ormai quarant’anni sullo schermo all’insegna della sobrietà. Il debutto è stato a quattordici anni in un film (Giovani Guerrieri) che ha avuto una distribuzione limitata per il suo contenuto di violenza, ma è stato riscoperto negli anni Ottanta sui canali via cavo e da allora è diventato un cult. Da allora il suo volto ci ha accompagnato nelle storie che registi come F.F. Coppola, Gus Van Sant, I fratelli Farrelly, Lars von Trier e moltissimi altri ci hanno raccontato. Storie a volte drammatiche, a volte noir, a volte thriller, ma anche comiche, in una varietà che non lo hanno mai confinato in un genere, e attraverso le quali ha saputo mantenere una coerenza attoriale e stilistica.
Quando lei ha cominciato molti anni fa, è diventato l’icona di una gioventù inquieta, più che ribelle, autodistruttiva. È stato per caso, o qualcosa di irrisolto che le veniva da dentro?
«Non so se mi definirei un’icona. Se penso a quel primo film, direi che fui attratto dai personaggi che proponeva: erano gente problematica, per certi versi disturbata. Ecco, forse una delle ragioni per cui mi affascinò l’idea di diventare attore va cercata nel fatto che il film proponeva persone davvero autentiche, e questo ha sempre avuto un impatto su di me. Non sono mai stato uno che si piazzava nel coro degli allegri, né dei drammatici. Non sono diventato attore per esibizionismo o perché avevo bisogno di recitare a tutti i costi. Sono stato motivato verso questo mestiere, perché permette di simulare la verità, di rispecchiare in qualche modo la natura umana. Ero curioso, mi interessava l’autenticità, interpretare personaggi che riconoscevo».


In uno dei primi film che lei ha girato, I ragazzi della 56ª strada (di F.F. Coppola), ha recitato al fianco di Tom Cruise, tra gli altri. Ha mai pensato a come sono state diverse le vostre carriere?
«Vorrei dire prima di tutto che Tom è un attore veramente bravo. Diversi? Sì, ma allora entrambi giovani attori, entrambi eccitati all’idea di esserlo. Ma penso che non si possa e non ci si debba mai confrontare con qualcun altro. Lui è tante cose che io non sono e viceversa. Io ho preso parte a piccoli film d’autore, sono stato il serial killer di Lars von Triers (La casa di Jack), ma ho anche lavorato con Cameron Crowe (Single ma non troppo), con Garry Marshall (Flamingo Kid), per i Farrelly in Tutti pazzi per Mary. Questo perché lavoro in un’industria e per quanto ami i film, so che si tratta di commercio e fa parte del gioco accettare le offerte. Anche se possono essere in conflitto, al fondo c’è sempre una relazione simbiotica tra i due aspetti, quello artistico e quello commerciale. Ed è il commercio quello che permette di fare film».
Lei però è riuscito sempre a mantenere al fondo delle sue prestazioni uno spirito da outsider, sia nella scelta dei ruoli che nell’opzione di film indipendenti. Come ci ha lavorato?
«Forse risulto un outsider agli occhi di molti, ma non mi considero un outsider nel mio intimo o nei confronti delle persone che fanno parte della mia sfera privata. Non dico che non sono interessato ad entrare nel profondo delle cose che mi interessano. Ad esempio quando ho girato City of Ghosts, il mio mantra era quello di non scendere a compromessi, a nessun costo. Sono flessibile, faccio tutto quello che deve essere fatto, ma non sono assolutamente disposto a cedere a nulla circa la mia visione di come deve essere fatto quello che va fatto. Forse non sono molto compiacente. Mi ricordo che durante le riprese, un certo giorno il manager della produzione mi ha detto: “Finalmente oggi abbiamo finito presto. Dovremmo fare sempre così” Io non ho detto niente, ma ho pensato che non è quello il mio modo di lavorare. Quello che importa è un lavoro fatto bene e questo a volte può richiedere molto tempo».


È vero che vive una parte dell’anno in Italia?
«New York è la mia residenza di base, ma vivo anche in Italia e molto più a lungo di quello che avrei immaginato. In Italia mi sono sempre sentito a casa: fin dal primo momento mi sono innamorato di quei posti. In effetti ci vado da più di trent’anni: forse è per il calore delle persone che mi circondano, forse per il fatto che la mia ragazza è italiana, ma non è solo per questo. Sono cresciuto a New York in un quartiere molto italiano, e ci sono delle connessioni profonde, non so. In Italia ho incontrato Michelangelo Antonioni, che voleva fare un film insieme a me: un momento magico, anche se poi il film non l’abbiamo fatto. Ma in Europa, in generale mi trovo bene».
E guardare all’America dall’Europa che prospettiva le offre?
«Io sono americano e sono fiero di esserlo. Non voglio dire ne sono fiero, non in senso nazionalistico. Non penso che il nazionalismo sia una buona cosa. Io mi sento un essere internazionale, in generale penso che i confini siano qualcosa di artificiale: quello che conta sono le relazioni tra le persone. L’Italia penso che possa ispirare molto un artista, e se penso alle armi, l’America mi sembra abbia ancora un approccio barbarico. Non voglio politicizzare la cosa, ma la civiltà europea mi sembra molto... civilizzata».
Parlando di America, come vede l’industria del cinema oggi. È ottimista o pessimista?
«Sono ottimista. La gente in Europa storce il naso davanti a Hollywood, ma lì sono stati fatti alcuni dei migliori film di tutti i tempi. Io amo il cinema e il mio lavoro, e mi sento a mio agio a Hollywood come a New York. Quello che amo di più del modo di fare cinema in Europa è che i registi sono più rispettati e liberi che negli States, dove contano di più gli aspetti economici. Quanto alla distribuzione, ci sono tante storie e tanti personaggi da raccontare che il fatto che siano diffusi via cavo o nei circuiti tradizionali, è irrilevante. Naturalmente nulla è magico come il grande schermo di Locarno, ma quello che conta è quello che si vede, che sia bello, ben fatto e divertente».