L’intervista

«Non possiamo più permetterci il bla bla bla di Greta»

Serena Giacomin, presidente di Italian Climate Network, traccia un bilancio di Youth4Climate e pre-COP26 gettando uno sguardo altresì sull’appuntamento, decisivo, di Glasgow: «Solo la politica può invertire il trend ed evitare il fallimento, annunciato, dell’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi»
Serena Giacomin. © ICN
Marcello Pelizzari
09.10.2021 18:30

Youth4Climate e Pre-COP26 sono alle spalle. La questione climatica, ora più che mai, sta occupando tempi e spazi della politica. Il grido (d’allarme) è uno solo: bisogna agire. Presto. Subito. Senza esitazioni. Altrimenti, le conseguenze saranno terribili. Per il pianeta e, di riflesso, per noi che lo abitiamo. Il prossimo, decisivo appuntamento è la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La COP26, già. Si terrà a Glasgow, dal 31 ottobre al 12 novembre. Greta Thunberg, l’attivista svedese, ha esortato una volta di più i «grandi» a impegnarsi. Lo ha fatto a Milano, proprio in vista della COP. Al grido «bla bla bla», ha chiesto alla politica concretezza. Fatti e non pugnette, insomma, volendo parafrasare il mitico assessore Palmiro Cangini. Per capirne di più ci siamo rivolti a Serena Giacomin. Laureata in fisica con specializzazione in fisica dell’atmosfera e meteorologia, è meteorologa, climatologa e – soprattutto, verrebbe da dire – presidente dell’Italian Climate Network, il movimento italiano per il clima.

Partiamo dalla cronaca degli ultimi giorni. Al di là dell’impatto mediatico, della presenza di Greta e, diciamo, dell’entusiasmo generatosi, qual è la lezione che gli adulti dovrebbero trarre da Youth4Climate? O meglio, quanto è forte e influente, ora, il messaggio delle giovani generazioni e perché i politici, al netto dell’emergenza in corso, non dovrebbero sottovalutarne la portata?
«I giovani stanno chiedendo e ottenendo spazio. In questi incontri negoziali preparatori, così come nelle COP sul clima, sulle singole parole si gioca il destino del mondo: da quelle dipendono diritti e doveri e non si può più correre il rischio che rimangano vuote, prive di azioni concrete. Il ruolo dei giovani e degli Osservatori è quindi ora più importante che mai, per fare pressione affinché i decisori agiscano, con la dovuta urgenza e attenzione».

In che modo Youth4Climate, Pre-COP e COP26 sono eventi collegati fra loro? Quanto di ciò che viene detto e fatto nelle strade e in piazza dai giovani finisce, sotto forma di proposte e piani, sul tavolo dei politici?
«Youth4Climate ha portato a Milano dal 29 al 30 settembre 400 ragazze e ragazzi da tutto il mondo per discutere dei temi più importanti relativi al cambiamento climatico, per trovare soluzioni comuni da riportare nei contesti nazionali ed internazionali. Proposta durante la COP25 di Madrid dall’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa, la Youth4Climate è frutto di un lungo processo preparatorio iniziato durante la pandemia. I giovani si sono confrontati in gruppi e sottogruppi di lavoro su: ambizione climatica, ripresa sostenibile dopo la pandemia, coinvolgimento degli attori non statali e una società più consapevole delle sfide climatiche. Il terzo giorno ha visto un dialogo diretto tra i giovani e i ministri partecipanti alla Pre-COP, terminata il 2 ottobre: una conferenza a porte chiuse in cui i delegati di cinquanta Paesi si confrontati sui nodi da sciogliere prima della COP26 di Glasgow. L’obiettivo della Youth4climate è stata, quindi, rendere i giovani davvero protagonisti, portare i decisori ad agire concretamente per il clima, ma anche formulare proposte concrete e influenzare la COP26 a novembre, sede di discussione e decisione relativa al cambiamento climatico».

L’ennesimo allarme, lanciato proprio dai giovani, riguarda l’Accordo di Parigi: gli obiettivi fissati, avanti di questo passo, verranno clamorosamente mancati. Ha ragione Greta quando parla di «bla bla bla»?
«Il “bla bla bla” di Greta Thunberg, per riportare proprio il suo intervento, è ciò che non ci possiamo più permettere. I giovani di oggi sono la generazione che subirà le maggiori conseguenze della crisi climatica. L’ultima a poter fare davvero qualcosa. Si trovano in una posizione critica rispetto al cambiamento climatico: sono quelli che dovranno convivere più a lungo con i suoi effetti, ma attualmente detengono il minor potere decisionale e le loro voci sono spesso emarginate dal processo politico. Anche a loro però ora le piazze e i cartelloni non bastano più. Pretendono una voce, vogliono partecipare ai quei tavoli dove si decide il destino del mondo, chiedono un confronto diretto con il sistema per poterlo cambiare».

I fenomeni climatici estremi a cui stiamo assistendo ci dimostrano che è importante in particolare l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico entro 1,5°C

Quanto è grave, al momento, la situazione? Solo per citare gli ultimi avvenimenti, abbiamo assistito a piogge battenti in Groenlandia, inondazioni in tutta Europa, cicloni sempre più forti e temperature estreme. Gli eventi considerati rari sono sempre più frequenti. Quanti e quali danni economici sta creando l’emergenza climatica?
«I fenomeni climatici estremi a cui stiamo assistendo ci dimostrano che è importante in particolare l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico entro 1,5°C anche alla luce del primo capitolo del nuovo report del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (uscito il 9 agosto scorso) e del report sui contributi nazionali determinati pubblicato dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici nei giorni scorsi. In agosto, il primo capitolo del nuovo report del Gruppo sottolineò l’ormai quasi impossibilità di contenere le temperature entro 1,5°C come da obiettivo dell’Accordo di Parigi, con un pianeta che già oggi risulta riscaldato in media di 1,09°C. Lo stesso report diceva che difficilmente potremo evitare di raggiungere 1,5°C entro il 2040. Nei giorni scorsi è poi uscito il report della Convenzione quadro sull’ambizione dei contributi nazionali determinati. In quelle pagine c’è un messaggio chiaro: ad oggi, nonostante le promesse aggiornate di molti Paesi, siamo ampiamente fuori strada. Anche se tutti i Paesi rispettassero integralmente quanto promesso nei loro documenti nazionali, incluse le misure ad oggi indicate come condizionali (ossia dipendenti da aiuti esterni), andremmo comunque incontro a una stabilizzazione della crescita delle emissioni solo intorno al 2030, con la possibilità di un picco delle emissioni proprio al 2030 solo nel caso in cui tutte le parti condizionali fossero implementate. Ossia supportate, da subito, da ingenti flussi Nord-Sud in termini di finanze, competenze, conoscenze. A promesse attuali, insomma, il massimo che possiamo aspettarci per il 2030 sembra essere una stabilizzazione della crescita delle emissioni o un picco, sicuramente non una diminuzione, in un contesto in cui gli obiettivi dell’Accordo di Parigi richiederebbero invece una discesa – rapida – delle emissioni globali. Colpisce però in positivo che i nuovi contributi nazionali determinati presentati nella seconda metà del 2021, anche a seguito del vertice sul clima organizzato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, abbiano già abbassato di circa il 10% la crescita stimata delle emissioni al 2030 rispetto al 1990 (da +70% a +60%) rispetto a quelli pre-summit, in un contesto in cui però come detto le emissioni globali continuano a vedere stime di crescita, anche se moderate: i nuovi contributi porterebbero infatti le emissioni a crescere, nel 2030, “solo” del 5% rispetto al 2019 e non più dell’11%. Durante la pre-COP a Milano l’inviato speciale degli Stati Uniti John Kerry ha lasciato intendere che prima della COP26 e durante la conferenza alcuni paesi potrebbero comunicare nuovi obiettivi e nuovi contributi più ambiziosi. Questo lavoro sotterraneo della diplomazia climatica americana e occidentale sembra, come visto, aver già portato dei frutti e potrebbe forse rilanciare la speranza verso la COP26. Solo e più che mai la politica, a questo punto, può invertire il trend ed evitare quello che sembra da tempo – e ancor più dall’uscita del report del Gruppo intergovernativo di agosto – l’annunciato fallimento dell’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi, contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C».

Le emissioni di CO2 hanno contribuito a trasformare il pianeta in una pentola in ebollizione. Questo cosa comporta da un punto di vista prettamente meteorologico?
«Un’atmosfera più calda è un’atmosfera con più energia in gioco: calore e umidità sono definiti i combustibili delle perturbazioni, che così possono dare vita a precipitazioni intense o addirittura estreme. D’altra parte i territori hanno a che fare con lunghe ondate di caldo e siccità, fenomeni altrettanto pericolosi per la salute umana. Questo scenario meteorologico viene definito “estremizzazione climatica”, uno dei peggiori effetti scatenati dal riscaldamento globale».

Qual è il ruolo di Italian Climate Network all’interno del grande discorso sui cambiamenti climatici? In che modo avete contribuito a Youth4Climate e quanto da vicino potrete la COP26?
«Italian Climate Network è stata l’unica ONG italiana – insieme al WWF – ad essere stata chiamata dal Ministero della Transizione Ecologica a partecipare ai tavoli di lavoro della Youth4Climate. La nostra coordinatrice Clima e Advocacy, Marirosa Iannelli, è stata infatti nominata Youth Advisor e ha guidato i giovani nei loro confronti durante gli incontri. Durante la PreCOP, gli osservatori della società civile sono intervenuti nella plenaria iniziale, nella quale le nove costituenti hanno presentato due discorsi per esprimere i loro punti comuni, soprattutto in merito alla necessaria azione degli Stati. Nello specifico, poi, Giulia Persico, coordinatrice della sezione Clima e Giovani di Italian Climate Network, ha partecipato alle plenarie finali sugli argomenti specifici di discussione e, durante la plenaria conclusiva, ha avuto l’opportunità di intervenire con un intervento di due minuti. Per quanto riguarda le COP, Italian Climate Network onlus partecipa ai Negoziati sul Clima della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dal 2011, ed è stata riconosciuta ufficialmente come “observer” nel 2014. Quest’anno a Glasgow saremo presenti con sedici delegati, otto per ogni settimana».

L’Equità Intergenerazionale è quel principio secondo cui il pianeta debba essere consegnato alle generazioni future in condizioni non peggiori rispetto a quelle in cui l’abbiamo ereditato

Può spiegarci cos’è il principio di equità intergenerazionale che Italian Climate Network ha contribuito a far comparire nell’Accordo di Parigi?
«L’Equità Intergenerazionale è quel principio secondo cui il pianeta debba essere consegnato alle generazioni future in condizioni non peggiori rispetto a quelle in cui l’abbiamo ereditato. Questo principio rispecchia il senso dell’antico proverbio amerindio “la Terra non è una eredità ricevuta dai nostri padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli” e vuole imporre come impegno concreto quello che dovrebbe essere il nostro più profondo atto di amore: essere adulti con a cuore – innanzitutto – la salute e il futuro dei propri giovani. A partire dalla COP19 di Varsavia, Italian Climate Network, insieme ad altre organizzazioni giovanili, ha creato un gruppo di lavoro focalizzato sull’Equità Intergenerazionale per far pressione sugli Stati affinché si impegnassero ad approfondire questo tema durante il processo negoziale. Una tappa intermedia – ma fondamentale – nel percorso verso Parigi, è stata la creazione nel 2014, insieme a WWF Italia, di un think tank sull’Equità Generazionale nel nostro Paese. L’obiettivo era redigere un pacchetto di proposte fattive per declinare il principio in cinque differenti aree d’interesse: ambiente, economia, diritto, salute e politiche giovanili. Infine, nel 2015, ben sedici volontari dell’Associazione hanno seguito i lavori della COP21 di Parigi, partecipando alla storica seduta plenaria: in questa occasione è stato ripagato il costante lavoro di quei volontari che, insieme ad altri giovani di tutto il mondo, hanno spinto per inserire il principio di Equità Intergenerazionale all’interno dell’Accordo stesso».

La politica, a questo giro, ha davvero compreso la gravità della situazione?
«Io penso proprio di sì perché al termine dei lavori l’Inviato Speciale per il clima degli Stati Uniti d’America, John Kerry, ha dichiarato che con la pre-COP si è iniziato a ricostruire un clima di fiducia dopo due anni di stop e, ancora, che è probabile che alcuni Paesi presenteranno obiettivi più ambiziosi nel corso del mese di ottobre e poi alla COP26. L’appuntamento rimane comunque sempre a Glasgow per il bilancio finale».

In Italia, in particolare, si sta parlando con una certa insistenza del nucleare nell’ottica di un graduale abbandono delle energie fossili. È una via che ritiene percorribile? O è pura propaganda politica?
«Quando si parla di nucleare si toccano corde delicate. Inoltre, non essendo né io né nessun altro esponente di Italian Climate Network un ingegnere nucleare, preferisco non rilasciare dichiarazioni non corrette».

I giovani e l’attivismo per il clima ci ricordano che, oltre a poter influenzare la politica, possiamo contribuire anche singolarmente alla salvaguardia del pianeta. Quali primi passi suggerirebbe a qualcuno che si affaccia soltanto adesso alla tematica della sostenibilità?
«Il primo passo è quello di ascoltare la scienza e i dati della comunità scientifica internazionale. Dalla piena consapevolezza del problema nasce tutto il resto, anche quel cambiamento nelle nostre abitudini e nelle nostre scelte che tanto ci spaventa, ma che invece ci aiuterebbe a migliorare».

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