Papa Prevost indica il suo cammino: «No al denaro, al potere, al successo»

«Mi avete chiamato per portare una croce». Sono state queste le prime parole dell’omelia di papa Leone XIV nella messa celebrata questa mattina davanti al sacro Collegio cardinalizio nella Cappella Sistina. Parole pronunciate a braccio e nella sua lingua materna. «Comincio in inglese, il resto lo farò in italiano - ha detto Prevost - Mi avete chiamato a portare questa croce e a essere benedetto con questa missione, e so che posso contare su ognuno di voi per camminare con me, mentre continuiamo come Chiesa, come comunità di amici di Gesù, ad annunciare il Vangelo».
La croce, la missione, la benedizione. L’omelia di papa Prevost si è caricata subito di significati simbolici. Il linguaggio del pontefice americano è parso discostarsi moltissimo da quello del predecessore. Tanto Francesco era diretto, semplice, essenziale persino, quanto Leone è sembrato essere metaforico, traslato. E fortemente ancorato alle sacre scritture. Un oratore-teologo, insomma, che - almeno in questo momento - bisogna saper interpretare e non semplicemente ascoltare.
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt: 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette - ha esordito Prevost - Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al primo degli apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, con il suo aiuto, ne sia fedele amministratore a favore di tutto il corpo mistico della Chiesa; così che essa sia sempre più città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni - come i monumenti in cui ci troviamo - quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel “popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di Lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”».
Non è, quindi, un’esteriorità solenne o grandiosa a giustificare l’esistenza della Chiesa, ma la «santità» di chi la compone. E la coerenza con il messaggio evangelico. Concetti del tutto simili a quelli di Francesco, ma espressi evidentemente in modo diverso.
La lettura della realtà
Anche la lettura della «realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni», ha avuto come punto di partenza i Vangeli. «C’è la risposta di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire - ha detto il Papa - E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo. C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi. Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente - magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza - sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo. Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui a essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere.
Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco».
Eccoli, chiarissimi, i punti di contatto con l’apostolato del predecessore argentino: la necessità di parlare a un Occidente smarrito, la missione, il recupero del senso di comunità: «Anche oggi non mancano i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».
Divorato dalle belve
La missione che ha in mente Leone XIV non ammette protagonismi deteriori. Al centro del progetto c’è Cristo. C’è la Chiesa. Non ci sono i singoli. Una professione di umiltà che accosta, ancora una volta, il nuovo Papa al vecchio. «Dico questo prima di tutto per me, come successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia. Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: “Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo». Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo - e così avvenne - ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo».