«Per un sogno si vive, ma non si deve morire»

Con la montagna non si scherza. Mai. Vale per chi non la conosce, ma anche per chi la conosce benissimo. Perché uccide. Ce lo ricorda oggi, ancora, Simone Moro, un’istituzione dell’alpinismo mondiale, l’uomo dei record, che si spinge più in là: non si può neppure sfidare, la montagna. Non si sfida la natura. Lo ha invece fatto Daniele Nardi, che con una caparbietà difficile da comprendere ha deciso di sfidare il Nanga Parbat, «la montagna più grande del mondo», una delle più impressionanti, optando per una variante inedita in salita, una variante mortale. L’alpinista laziale ha sfidato il Nanga Parbat in uno dei suoi punti forti, nella linea più diretta e al contempo più impenetrabile. Non si hanno sue notizie da una decina di giorni.
Simone Moro, cosa rappresenta per lei il Nanga Parbat?
«Di sicuro rappresenta la montagna che mi ha chiesto di più rispetto a qualsiasi altra montagna. Le ho dedicato un anno intero della mia vita, quattro spedizioni, una d’estate e tre d’inverno: tutto per imparare a conoscere il gigante. Perché veramente il Nanga Parbat è un gigante, è la montagna più grande del pianeta, non la più alta, ma di gran lunga la più grande. Dal punto in cui tutti possono vederla, ovvero dalla Karakoram Highway, da lì ci sono più di settemila metri di dislivello. Non esiste nulla di simile, da nessun’altra parte. Ecco, mi ha chiesto tanto, l’ho sempre rispettata e sono sempre scappato quando mi sono trovato a farmela sotto, quando il coefficiente di pericolo o i miei limiti mi portavano a un senso di realismo. Sono riuscito ad arrivare in cima quando ho trovato le condizioni perfette, la squadra giusta e il momento ideale».
Quante vie possibili ci sono per arrivare in cima?
«Non sono infinite, però sono tante quelle già percorse. Ce ne sono sei dal versante Diamir, due dal versante Rakhiot e tre dal versante Rupal. Undici, e non sono sentieri, non sono segnate, neppure vie ovvie, sono vie che si snodano lungo i cosiddetti punti deboli della montagna. La via che tentavano adesso Daniele Nardi e Tom Ballard, da un punto di vista puramente lineare, è una via attraente. Non a caso la vide già Mummery nel 1895. Però dal vedere una linea bella, anche logica, al percorrerla, ce ne passa. Va infatti analizzata più nel dettaglio, per vedere la sua fattibilità rapportata ai coefficienti di pericolo. La logica non deve essere quella del “chi rischia di più, poi magari gli va bene”, non è così che si aprono le vie alpinistiche di salita. Occorre una mediazione tra la linea e il coefficiente di pericolo che uno si deve assumere. La via Mummery è una via estetica, che attrae l’occhio ma che dovrebbe, al contempo, respingerlo, proprio per il suo coefficiente di pericolosità, superiore a qualsiasi altra via del Nanga Parbat».
Perché scegliere una via piuttosto che un’altra?
«La scelta principale è una: o ripetere una via aperta o aprirne una. Io ho provato entrambe le opzioni. Ne ho aperta una nel 2013 e ne ho percorsa una già salita nel 2016, la prima invernale di sempre. Sceglierne una nuova d’inverno potrebbe equivalere a un’amplificazione del prestigio della salita che uno vuole effettuare. Se Nardi e Ballard ci fossero riusciti, tale salita sarebbe diventata la salita più importante delle rispettive carriere e li avrebbe posti alla ribalta internazionale, elevandone fama e prestigio. L’unica cosa è che fama e prestigio si scontravano e si sono scontrati di fatto con l’evidenza di un coefficiente di pericolo talmente alto da spiegare il fatto che nessuno avesse mai tentato di salire per quella via con tanta caparbietà. Io non ho mai tentato perché mi ha sempre fatto paura. Esagero? Avevo fifa, me la facevo sotto a pensare di tentare il Mummery. Ma non perché sono uno sfigato, ma perché vorrei diventare un bravo vecchio alpinista e non solo un bravo alpinista».
Cosa le fa così paura, di quel maledetto sperone?
«Quello sperone ha non una ma due spade di Damocle che pendono in alto, su di lui, due seracchi, ovvero le parti terminali di due ghiacciai pensili, che gli fanno da sentinelle a destra e a sinistra. Il pericolo è legato al crollo dei due seracchi, alti un centinaio di metri. Parliamo di grattacieli, larghi mezzo chilometro, che regolarmente, più volte al giorno, cadono e crollano. Lo sperone, in mezzo ai due seracchi, non è immune a questi crolli, perché quando crollano, i seracchi esplodono come bombe, con schegge grandi quanto camion, che vanno da tutte le parti. Quando cadono insomma sconvolgono tutto. Per me non era più un discorso di abilità tecniche, non era più una questione se fossi o meno capace; la domanda era: sono capace di prendere tutti questi rischi e fare finta di niente, o no? Io, in cinquantun anni di vita, non sono mai stato capace di assumere un coefficiente di rischio così palese. Lo sperone Mummery è sulla via più diretta alla vetta, ma quella è anche la via più mortale. L’unico che è passato di lì è stato Reinhold Messner, in discesa. Lui è sceso in tempo, prima che ci fosse il solito crollo quotidiano di seracchi, quel crollo che coinvolse, uccidendolo, il fratello Günther, che era rimasto attardato».
Qualcuno, prima della sua partenza, aveva chiesto a Nardi se questo tentativo non rappresentasse un suicidio.
«È una domanda che ci può stare, ma senza alternative di risposta. La risposta infatti è un categorico no, un categorico rifiuto al palese suicidio, all’idea di cacciarsi su una via in cui è più alta la probabilità di tornare cadavere, di non tornare nemmeno, piuttosto che vivo. Gli alpinisti non sono una banda di incoscienti. Nel caso specifico di Nardi, occorrerebbe un’analisi psicologica profonda per capire cosa lo abbia spinto ben cinque volte ad andare là. Chiaro, è un grandissimo sogno, non solo suo, di oltre un secolo di alpinismo. Tutti però si erano fermati all’esercizio mentale. Daniele forse ha valutato i rischi come non così alti; e per quattro volte gli era anche andata bene. Fa riflettere però il fatto che per cinque volte abbia affrontato la via con team diversi. Mai nessuno era ritornato. Solo lui. Questo mi dà già una risposta. Lui e solo lui vedeva un coefficiente di rischio normale. Era diventata un’ossessione, magari una rivalsa verso un mondo che non aveva mai contemplato un alpinista di fama internazionale che arrivasse dal Sud. Oppure, non so, aveva questa ambizione di entrare nell’olimpo degli alpinisti riconosciuti a livello mondiale. Non posso conoscere le sue motivazioni. Posso solo dire che nessuno era mai tornato su quella via dopo averla tentata».
L’impresa dell’alpinista, tradizionalmente, è un’impresa molto intima. Qui però si parla di fama, di prestigio, insomma di vanità...
«Non posso essere falso. Io ho conosciuto Daniele, l’ho conosciuto come una persona molto ambiziosa, e fin qui niente di male, l’ambizione è il motore del mondo, ma era uno particolarmente fanatico dei media e della mediatizzazione di ciò che faceva. Lo leggi anche nel suo linguaggio. Diceva: “Vado a tentare la sfida al Nanga Parbat”. La natura se la sfidi ti uccide. E infatti è quello che è successo. E poi parlava di “estremo”... Sono termini che io non uso mai. Perché cerco di fare dell’ingrediente della normalità un ingrediente anche per qualcosa di eccezionale. Per me lui è sempre stato uno che aveva voglia di avere follower, attenzioni, ma c’è anche un “come”, non solo un “che cosa”. Sapere che queste mie dichiarazioni potrebbero essere lette da una vedova, così come da un figlio di quattro mesi, mi porta a usare toni pacati, ma mentire sarebbe un’altra morte di ciò che può servire come verità per esortare anche nuove generazioni a scegliere un “come” e non solo un “che cosa”. E il “come” mette in primo piano la preservazione della vita. La protezione della vita. Purtroppo c’è un alpinismo ciecamente vanesio. Io stesso vado in televisione, scrivo libri e ho un blog, probabilmente anch’io ho la mia vanità, ma la mia vanità non mi porta a nascondermi dal definirmi un fifone perché non ho mai tentato il Mummery. Sì io me la sono fatta sotto e lo dico, mentre c’è gente così vanesia che certi termini non li vuole usare, e invece sono probabilmente ingredienti per diventare anche vecchio, non solo forte e famoso».
Cos’è la paura, per lei?
«La mia è una paura dettata dal fatto che io ho dedicato e dedico la mia vita a un sogno, ma la prima cosa che ho imparato è che si vive per un sogno, non che si muore per un sogno. E quindi, quando io leggo che per Daniele scalare lo sperone Mummery era un sogno, be’, non mi sta bene, non è educativo. Io ai miei figli devo dire di dedicare la loro esistenza per completare, passo passo, la realizzazione di un sogno, non di mettere come prezzo da pagare anche la vita, pur di realizzare un sogno. Qui sento parlare di fatalità, ma io non posso definire fatalità la valanga che è scesa e che ha ucciso Nardi. Perché da lì ne scendono diverse ogni giorno. Lui le aveva viste. A quel punto il sogno doveva fermarsi all’esercizio mentale, non doveva manifestarsi anche con un tentativo di realizzazione. Daniele doveva scegliere un’altra via, doveva puntare sul suo alpinismo, a uno stile pulito, in invernale, come voleva lui, sul Nanga, ma non per quella via: perché se anche Messner dice che quella via è un suicidio, non è Simone Moro che ce l’ha con un suo collega per chissà quale motivo, come dicono in giro. È l’evidenza che spinge anche il più grande della storia, Messner appunto, a dire che di lì non si può salire, che lui è sceso per la disperazione, perché era già morto e invece è sopravvissuto, ma suo fratello è morto, lì dentro. L’alpinismo può e deve fare anche scuola».
Un concetto a lei caro è quello di cordata. In questi giorni è emersa più che altro la figura dell’alpinista individualista. Una deriva pericolosa?
«Sì, occorre evidenziare il concetto di gruppo, di cordata, ma aggiungo anche di scelte condivise. Se Daniele avesse condiviso le opinioni che il mondo internazionale gli elargiva, lui probabilmente non sarebbe tornato lì, di sicuro non cinque volte. Avrebbe scelto una sua via, magari una via più difficile, una via in cui sarebbe stato solo l’elemento squisitamente tecnico a rendere possibile o impossibile il sogno. Il concetto di cordata è fondamentale se tutto parte dalla condivisone di scelte e analisi. Daniele ha sempre cambiato compagni perché gli altri gli hanno sempre detto “lì non torno più”. Persino il pachistano, che era con lui fino a un mese fa, ha detto “io non voglio morire”. Se lo dice lui, anche pagato, be’ non ti fa riflettere? Hai anche un bimbo di quattro mesi a casa...».
Possono esistere, di fronte a una montagna, categorie tanto diverse di alpinisti?
«L’alpinismo di alta quota, visto come esplorazione, come avventura intima, ha protagonisti diversi, è un’oasi di libertà. Come ogni libertà, anche questa va accettata finché non lede la libertà altrui. In questo senso, non è in discussione la libertà di Nardi. La sua è stata una libera scelta, che ha portato a una tragica fine, la quale non ha costi sociali, né implicazioni che vadano al di fuori della sua storia. L’unico che è stato convinto ad andare, Tom, è anche lui una persona adulta, e anche lui avrà reputato fattibile la cosa. I protagonisti di questa storia insomma hanno giocato sulla propria pelle. Non si può vietare questo tipo di libertà, ma si può sicuramente analizzare e da lì imparare qualcosa. Ci sono categorie di alpinisti, i miei punti di riferimento, che sono diventati grandi e vecchi attraverso le loro scelte. Altri sono diventati grandi ma non vecchi per via delle loro scelte. Altri ancora sono diventati grandi, ma non vecchi, perché sono stati sfortunati o perché è subentrato qualcosa di imponderabile. Questo incidente non è imputabile alla sfortuna, solo al coefficiente di rischio che si è dimostrato mostruosamente più alto rispetto a quello di altre scalate himalaiane».
Tornando alla paura, è tanto vicina al concetto di rischio?
«Di solito sono consequenziali. Io rischio finché la paura non mi blocca e non mi fa ragionare e tornare indietro. Sono due elementi virtuosi, soprattutto la paura. L’accettazione del rischio ti permette la realizzazione di qualcosa di eccezionale, di qualcosa che vada oltre il limite delle tue capacità. Il problema è che il concetto di paura viene visto come un limite. Uno che ha paura viene bollato come un fifone. Be’, io ho paura, sono un fifone e sono felice di dichiararmi tale, se esserlo mi ha permesso di diventare comunque grande. Mi ha anche reso un perdente in tante spedizioni. Ma ho costruito un progetto, proprio tenendo un passo mitigato dalla mia sana paura. Non aver paura oggi può significare “game over”, morire. E se sei “game over” non c’è un diritto di replica, non si torna indietro, non ci sono altri tentativi. Quindi essere fifoni in montagna può significare essere grandi alpinisti. Messner ha impiegato diciassette anni a fare i quattordici 8.000 meri, altri solo otto ma ora non ci sono più, perché sono morti tempo dopo, continuando a scalare secondo parametri che non contemplavano il fallimento. In montagna non ci si può sentire invincibili o dei Rambo, bisogna avere anche fifa, bisogna anche essere gente che cambia idea, crescendo e comprendendo i rischi. L’uomo cambia, diventa più maturo, capisce».
La paura, in montagna, va quindi assecondata piuttosto che affrontata?
«La paura, la si ascolta. Come la fame e il sonno. Senti la paura e ti chiedi: perché ho paura? Perché ho paura, io che faccio questo mestiere e altre volte non ho paura? Ho paura perché sopra la mia testa ho questi seracchi che possono venire giù da un momento all’altro. Uno non può pensare a cosa penseranno a casa, a cosa penserà il collega, a cosa penseranno gli sponsor. Perché in quel momento diventerebbe proprietà di altri. Le scelte non sarebbero più sue. In quei momenti non puoi pensare agli altri, perché gli altri di te se ne fregano. Oggi siamo sempre più schiavi degli altri, di ciò che potrebbero pensare, e ciò si ripercuote anche nel nostro ambito».
Che poi nessuno vede Tamara Lunger come una perdente, solo perché si è fermata, nella sua spedizione, a settanta metri dalla vetta del Nanga.
«Assolutamente. Quei settanta metri le sono valsi molto di più della vetta. Perché tutti sono rimasti estasiati – oggi, alla luce dei fatti recenti, ancor di più – dalla sua capacità, dalla sua lucidità nel fermarsi a settanta metri dal divenire la prima e unica donna della storia a scalare un 8000. Un insegnamento devastante, da parte di una donna in un mondo maschile. Morire per un sogno non ha nulla di eroico. Poi ci sono le fatalità, sicuro. Il Nanga Parbat comunque è una scuola. Ha già avuto i suoi morti. Quelle lezioni devono farci capire che uno deve sognare proporzionalmente alle proprie capacità e ai coefficienti di rischio. Daniele ha sognato, perdendo il senso della realtà».