Perché il verde in città è ancora (troppo) un privilegio

Che bello, dopo una dura giornata in ufficio, poter fare quattro passi nel parchetto sotto casa. Sempre più spesso, nella grigia città, si fa pressante il bisogno di respirare aria pulita, o quantomeno di essere attorniati da un po’ di natura. Tanto che in Canada alcuni medici prescrivono, per risolvere diversi mali, una passeggiata nel bosco invece di un antidolorifico. Il problema è che il tanto agognato verde non sempre è accessibile ai più. Secondo un recente studio dell’Agenzia europea dell’ambiente, le infrastrutture «verdi e blu» (orti, giardini privati, parchi, alberature stradali, acque e zone paludose) costituiscono mediamente il 42% dell’area urbana europea, ma solo il 3% di esse è accessibile al pubblico. L’analisi dimostra anche come vi siano grosse differenze sociali nella distribuzione degli spazi: il verde è meno disponibile nei quartieri urbani a basso reddito. Con Marco Castrignanò, sociologo urbano e professore presso l’Università di Bologna, abbiamo approfondito la questione.

Sostenibilità ambientale...
Verde e città. Parole sempre più spesso accostate, sempre meno ossimoriche. «In generale, protezione e ampliamento degli spazi verdi sono argomenti centrali di questi tempi, specialmente per l’importanza che tali aree hanno nella mitigazione del cambiamento climatico» comincia Castrignanò. «Nel corso degli anni l’attenzione si è spostata anche su scala intraurbana. Un esempio può essere il Bosco Verticale a Milano». Il complesso di grattacieli verdi, che ha visto la luce nel 2014, rappresenta la fusione tra città e natura. «Un’operazione molto interessante anche per la sua replicabilità», sottolinea l’esperto. «Lo stesso Boeri (l’architetto creatore dei palazzi, ndr) sta studiando la sua applicazione a un’edilizia più sociale, povera. Così esteticamente accattivanti, tali strutture potranno essere portate anche ai ceti popolari».


Sono molti i centri che, anche a livello pubblico, si stanno facendo in quattro per tingersi di colori più naturali. Pensiamo ad esempio alla High Line di New York: inaugurata nel 2009, si tratta di un parco realizzato su una sezione abbandonata della ferrovia sopraelevata, vera e propria linea verde che corre lungo il lato occidentale di Manhattan. Sorge però il dubbio: si tratta di un regalo che la città fa a sé stessa e ai propri cittadini o solo di una strizzatina d’occhio ai turisti? «La nascita di progetti simili indica come il tema stia a cuore ai grandi centri: il fatto che si pensino spazi verdi anche atipici è un fenomeno non solo turistico, ma anche un segnale di adattamento della città alla problematica del cambiamento climatico. Per essere sostenibile, una zona urbana deve certamente prevedere degli spazi verdi, se possibile implementandoli nella maniera più funzionale possibile al problema». E, diciamocelo, la trovata di New York è sicuramente pittoresca.

... e sostenibilità sociale?
Ma quello ambientale non è l’unico vantaggio del verde urbano. «Anche il suo valore dal punto di vista della sostenibilità sociale è estremamente importante», evidenzia Castrignanò. «È per questo che sarebbe auspicabile una maggior diffusione di simili spazi nel tessuto urbano. Dai grandi parchi cittadini bisognerebbe passare ai microparchi, ai microgiardini, agli orti urbani. Tutte soluzioni che s’incastrano in un’idea di città compatta, che smetta di consumare suolo e che costruisca sul costruito. Mi piace, in genere, fare l’esempio di due centri americani: le città dovrebbero essere fatte più come New York e meno come Los Angeles. Dovrebbero puntare ad essere compatte ed evitare di estendersi in maniera disorganica sul territorio. Il centro urbano deve essere visto come un corpo composto da cellule, i quartieri, che hanno bisogno di diversi fattori per funzionare correttamente: tra questi anche le aree verdi».


«Se ben distribuite, svolgono una funzione che in sociologia chiamiamo di ‘‘formazione di capitale sociale’’: favoriscono il valore aggiunto delle relazioni sociali. Per tale processo ovviamente devono essere garantiti certi fattori, come la manutenzione o la sicurezza». Tali aree verdi svolgono, per il tessuto sociale, un ruolo coesivo: «Spingono le persone a muoversi insieme per la loro protezione». E riguardo alla necessità di rendere il verde più «capillare», il professore aggiunge: «A simili aree hanno diritto tutti. E non parlo di un diritto garantito dalla semplice presenza di un grande parco. Il verde deve essere presente nelle diverse zone, sia in quelle più ricche sia in quelle più povere. Idealmente la tendenza a creare quartieri dei più abbienti e meno abbienti sarebbe da superare. Nelle città dovrebbero prevalere quartieri misti o comunque con un certo grado di mescolanza sociale». Un’utopia? «In alcune città italiane, come Milano, alcune case popolari sono ancora in centro città, ma a poco a poco vengono messe sul mercato». Una tendenza che andrebbe combattuta «per evitare che gli alloggi popolari divengano tutti periferici o semiperiferici. Sarebbe importante invece preservare tali case anche in zone più residenziali, centrali o semicentrali, dove normalmente c’è un reddito medio più elevato. In questo modo si eviterebbe la nascita di quartieri, al loro interno, troppo omogenei dal punto di vista economico-sociale». Insomma, una mappatura più equa che «aiuterebbe anche a una migliore distribuzione del verde».
USA vs Europa
E riguardo la capillarità del verde, soprattutto se in versione «micro», si potrebbe portare l’esempio degli Stati Uniti. Molte sono, infatti, le città che da tempo puntano a creare piccoli parchi in ogni zona della città, anche le più povere. Una distribuzione migliore rispetto a quella europea? «È difficile affermare che gli Stati Uniti siano più avanti dell’Europa sulla questione del verde urbano», spiega Castrignanò. «Tendenzialmente soffrono di tassi di segregazione maggiori dei nostri: i quartieri statunitensi tendono dunque a essere più omogenei di quelli europei». L’introduzione di zone verdi può avere conseguenze tutt’altro che utili al tessuto sociale: «Una deriva possibile è che questi spazi diventino luogo di scontri fra gang, uno scenario plausibile dove c’è un’alta concentrazione di svantaggi sociali. Si crea una sorta di effetto a catena: dal disagio sociale al tasso di incarcerazione più elevato, a nuovo disagio sociale. Tutto si concentra nella stessa area, creando un effetto ‘‘ghetto’’ non mitigato, certamente, dalla semplice presenza di un parchetto. Il lavoro, in questo caso, andrebbe eseguito sulla concentrazione di svantaggi sociali.


Tornare al chilometro zero
Quale sarà dunque la vera sfida per la città sostenibile? «La battaglia delle battaglie è il contrasto al consumo di suolo. Preservare gli spazi verdi e le aree coltivate vicine alla città per incentivare il ‘‘chilometro zero’’. Il modello al quale bisogna puntare è quello della città medievale, che vedeva appunto l’approvvigionamento alimentare appena al di fuori delle mura cittadine. Le attività in tal senso esistono già e sono diverse. Penso ad esempio al numero crescente di campi aperti e mercati contadini: sempre più diffusi, portano provviste dalle realtà agricole più vicine. Nello sviluppo delle città c’è stato spesso troppo liberismo che ha prodotto fin troppi danni. Ora per fortuna lo sforzo per una progettazione pensata sta riprendendo nuova linfa. Negli anni ‘80-’90 alle nostre latitudini si credeva che la città del futuro sarebbe stata come Los Angeles. Oggi invece sappiamo che dobbiamo puntare agli esempi di New York, Bilbao, Vienna». Le parole chiave? «Compattezza e sostenibilità ambientale».