Perché le Hawaii piangono l'embargo sul petrolio russo
Spiagge, palme, sole. Un paradiso. Vivere sulle piccole isole dell'Oceano pacifico è il sogno di molti. Ma non tutti pensano al fatto che far funzionare un'economia insulare possa essere un vero inferno. Basta un granello di sabbia (e lì ce n'è molta!) tra gli ingranaggi degli approvvigionamenti per mandare in tilt l'intera macchina che permette all'isola di vivere i piaceri della vita continentale. Come l'accesso all'elettricità, ad esempio. Lo sanno bene le Hawaii, 50. Stato americano, dove oltre quattro quinti del consumo di energia, riporta uno studio della US Energy Information Administration (EIA), è basato sul petrolio: una risorsa interamente importata, dato che l'arcipelago non gode di proprie riserve. E non parliamo solamente dei mezzi di trasporto (dalle auto per gli spostamenti via terra agli aerei utilizzati per andare di isola in isola o verso il continente), ma anche dell'alimentazione delle case. Accendere una lampadina a Honolulu, due volte su tre, vuol dire farlo tramite i prodotti della sola, piccola, raffineria locale: la Par Hawaii, società controllata da Par Pacific Holdings, Inc. con sede in Texas. Con una capacità di 94 mila barili al giorno, la raffineria situata a Kapolei è in grado di provvedere al fabbisogno delle isole. Ma ecco il granello di sabbia. Il petrolio, dicevamo, va importato. E da dove? Oltre un terzo dalla Russia. Ahia. Se l'Europa ancora temporeggia sull'embargo al gas e petrolio del Cremlino, gli Stati Uniti non hanno fatto altrettanto, agendo già in marzo. Una decisione anticipata dalla Par Pacific Holdings, che il 3 marzo (cinque giorni prima che Biden firmasse il divieto nazionale) ha dichiarato lo stop all'importazione del petrolio russo.
Nel proprio comunicato, l'azienda ha fatto immediatamente sapere di avere pronti dei sostituti dopo l'espulsione russa: «Partner principalmente dal Nord e Sud America». E i costi? Destinati a lievitare: secondo le previsioni di Hawaiian Electric, la principale azienda elettrica dell'arcipelago, le bollette potrebbero aumentare del 10% sull'isola di Oahu, del 20% su Maui e Hawaii, del 25% sulla più povera Molokai. Con buona pace del presidente di Par Hawaii Eric Wright, che aveva immediatamente affermato: «Non prevediamo che questa decisione avrà un impatto significativo sui prezzi pagati dai consumatori».

Verso l'energia pulita
Vivere su queste isole, insomma, è tutt'altro che semplice. E se una legge varata nel 2015 chiede che entro il 2045 il 100% dell'energia hawaiana sia prodotta da fonti pulite, l'indipendenza dal petrolio sembra ancora una chimera. Come arrivare a una diversificazione efficace e sempre più green? Per fortuna due cose alle Hawaii non mancano mai: sole e vento.
Secondo i dati diffusi dall'EIA, circa un quinto dei clienti di Hawaiian Electric (che serve il 95% degli abitanti delle cinque principali isole), ha installato sul proprio tetto dei pannelli solari. E mentre le nuove case unifamiliari, per legge, dovranno essere dotate di scaldabagni solari, almeno due megaparchi con 60 megawatt di capacità dovranno entrare in funzione nel corso dell'anno. Insomma, qualcosa si muove.
E l'eolico? Con otto parchi eolici, le Hawaii producono circa il 22% dell'energia rinnovabile dell'isola. Un numero non elevatissimo, se confrontato a quello del solare (64%), dovuto anche all'impatto che questa tipologia di fonte rinnovabile può avere a livello paesaggistico. Per non parlare della ricca fauna che, temono in molti, potrebbe essere disturbata dalle pale delle centrali.
Altre soluzioni? Poche. Per ricavare energia da biomassa, ad esempio, sulle isole sono stati a lungo utilizzati i rifiuti agricoli derivati dalla coltivazione della canna da zucchero. Ma con la progressiva chiusura delle piantagioni, la possibilità sembra farsi sempre meno concreta. L'idroelettrico? Nemmeno. Benché diversi piccoli progetti siano sotto la lente del Governo, le Hawaii non dispongono di grandi corsi d'acqua che possano supportare la creazione di dighe e centrali. E che dire delle risorse geotermiche? Il vulcano Kilauea, situato sull'isola Hawaii, alimenta l'unica centrale geotermica dello Stato. In grado di coprire il 10% del fabbisogno energetico della «Big Island», questa risorsa rappresenta però solo l'1% dell'energia prodotta da fonti rinnovabili in tutto l'arcipelago. Senza considerare che imbrigliare l'energia di un vulcano non è sempre evidente. Basti pensare che nel maggio del 2018 gli operatori sono stati temporaneamente costretti a chiudere l'impianto dopo che lava e fessure del terreno vi avevano bloccato l'accesso.
La crisi dettata dall'embargo del petrolio russo, insomma, arriva in un momento di transizione energetica in cui gli hawaiani dipendono ancora molto dal combustibile fossile. Ecco perché al 50. Stato a stelle e strisce non restano che due opzioni: volgersi più rapidamente al green o accettare le bollette sempre più pesanti.