Anniversari

Quando la guerra fredda si combatteva sulla scacchiera

L'11 luglio 1972, iniziava a Reykjavik il "match del secolo" tra l'americano Bobby Fischer e il russo campione in carica Boris Spassky
Dario Campione
11.07.2022 06:00

Martedì 11 luglio 1972. Nei juke-box di bar e pub americani risuonano le note di Lean On Me, cantata da Bill Withers. Mentre nei cinema trionfa ancora una volta la giustizia solitaria e implacabile di Clint Eastwood, stavolta calato nei panni di Joe Kidd, eroe solitario e umbratile, incontrastato protagonista dell’omonimo film diretto da John Sturges.

Henry Kissinger, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, sta preparando a San Clemente, in California, gli ultimi dettagli dell’incontro tra il presidente Richard Nixon e l’ambasciatore sovietico Anatoli Dobrynin. Ma tra un dossier e l’altro deve anche risolvere un’altra grana: convincere lo sfidante americano al titolo mondiale degli scacchi, Bobby Fischer, a iniziare finalmente il match contro il campione in carica, il russo Boris Spassky.

La leggenda vuole che al telefono con Reykjavik, città in cui è in programma la sfida, Kissinger abbia esordito dicendo a Fischer “Il peggior giocatore di scacchi della storia chiama il miglior giocatore del mondo”, e lo abbia alla fine persuaso a muovere i pezzi sulla scacchiera, trasformandolo in un combattente della guerra fredda, un soldato chiamato a difendere il suo Paese.

D’altronde, l’attesa per il confronto tra il glaciale Boris e l’irruente Bobby - 35 anni il primo, 29 il secondo - è ormai spasmodica. E attraversa tutto il pianeta. Per la prima volta, è persino prevista la trasmissione in diretta Tv delle partite. Sulla PBS, il canale pubblico statunitense, le cronache di Shelby Lyman - una maestra di scacchi scelta per coprire i vuoti e le attese tra una mossa e l’altra - diventano un fenomeno di culto, raccogliendo un successo tanto inaspettato quanto clamoroso. Sulle pagine del New York Times, l’inviato (e Premio Pulitzer) Harold Charles Schonberg scrive che il mondo, grazie a Bobby Fischer, si è accorto «che gli scacchi, al più alto livello, sono competitivi come il football, elettrizzanti come un duello mortale, esteticamente appaganti come un’opera d’arte, intellettualmente esigenti come ogni altra forma di attività umana».

Errore psicologico

Il genio americano delle 64 caselle perde la prima partita (alla quale si presenta con 10 minuti buoni di ritardo) dopo aver catturato con l’alfiere un pedone lasciato in presa da Spassky. Ma, scrive Schonberg, ottiene subito «anche il rispetto di tutti i giocatori presenti a Reykjavik, accettando la sfida e buttando via un pareggio sicuro» per tentare invece un formidabile attacco.

Anche la seconda partita è appannaggio del russo, che vince tuttavia per forfait: il bizzoso e collerico Bobby, infatti, non si presenta sul palco allestito nella grande arena del Laugardalshöll - il complesso sportivo della capitale islandese - adducendo una serie di strampalati motivi: il troppo rumore delle telecamere, il pianto dei bambini in sala, le luci sbagliate, la presenza dei giornalisti. Per continuare nella sfida, l’americano pretende di trasferire la scacchiera in una saletta. Diversamente, dice, lascerà Reykjavik. E, per rendere credibile la sua minaccia, compra un biglietto su tutti i voli in partenza dall’aeroporto di Keflavik nei giorni successivi.

Contro il parere dei suoi secondi e della delegazione sovietica, Spassky accetta. E si condanna alla sconfitta. In un colloquio del 2005 con il matematico italiano Piergiorgio Odifreddi, l’ex campione russo ripercorre quei momenti drammatici, e spiega perché scelse consapevolmente di infilare la testa dentro il patibolo. «Ormai Fischer era diventato più forte di me: lo sapevo, anche se non volevo saperlo. Psicologicamente ho commesso un errore molto grave: accettai di giocare a porte chiuse nella terza partita, dopo che Fischer si era messo a fare il diavolo a quattro per la sedia, le luci, i giornalisti, eccetera. Avrei potuto chiedergli di giocare secondo le regole o di andarsene, ma accettai perché volevo salvare il match, e non vincere a tavolino. Ma dopo quella partita mi sono perso d’animo, e non ho più avuto chances: ormai ero come un piano scordato. […] Bobby Fischer era certamente più forte di me tecnicamente, ma psicologicamente era molto più debole: c’era una specie di compensazione, che però si ruppe dopo quella partita».

Una strana amicizia

Alla fine, l’americano trionfò con 7 vittorie, 11 patte e tre sole scontitte. «Contro Fischer non è questione di vincere o perdere, ma di sopravvivere», ha più volte detto Spassky. Che, in realtà, tentò negli anni successivi al match di Reykjavik (riuscendoci in parte) di diventare amico del rivale americano. I due tornarono persino a sfidarsi nel 1992 in Jugoslavia, Paese all’epoca sotto embargo ONU a causa della guerra di Slobodan Milošević contro la Bosnia. Per Fischer, che da anni contestava apertamente gli Stati Uniti, fu l’ennesimo atto dimostrativo - il primo, clamoroso, era stato la rinuncia alla difesa del titolo mondiale nel 1975 contro Anatoly Karpov.

Bobby fu incriminato da un procuratore federale americano e inseguito per anni dalle autorità USA. Nel 2004 venne infine arrestato all’aeroporto di Tokyo con l’accusa di possesso di passaporto falso. Spassky, nel frattempo diventato cittadino francese, scrisse allora una lettera molto toccante al presidente George Bush junior: «Fischer è una persona tormentata. È un asociale che danneggia prima di tutto sé stesso, ma è onesto e altruista. Vorrei chiedere clemenza per lui. E se proprio non è possibile, arresti pure me, visto che mi sono macchiato dello stesso crimine. Quindi mi metta in una cella con lui e ci dia una scacchiera».

Il carcere in Giappone

«Il più famoso match di scacchi della storia mediatica - dice ancora Odifreddi - fu un prolungamento sulla scacchiera della guerra fredda, in cui ironicamente l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti furono rappresentati da due dissidenti, che in seguito finirono entrambi rocambolescamente in esilio dai rispettivi Paesi».

Dopo aver trascorso qualche mese in carcere, in Giappone, Fischer riparò proprio in Islanda, Paese che nel frattempo gli aveva concesso la cittadinanza come forma di ringraziamento per aver contribuito a far conoscere al mondo intero l’isola scandinava durante i due mesi della sfida contro Spassky. A Reykjavik, il 17 gennaio 2008, dopo un ricovero in ospedale per un’insufficienza renale acuta, Bobby mosse l’ultimo pedone della sua vita.  

Ma il senso del gioco è soltanto giocare, fino all'ultima mossa

Massimo Adinolfi, ordinario di filosofia teoretica all’Università Federico II di Napoli, ha pubblicato pochi mesi fa un libro in cui, partendo dalle battaglie più memorabili e dai profili psicologici dei giocatori, dimostra come il mondo degli scacchi possa essere una chiave d’accesso privilegiata ai segreti degli uomini (Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano, Mondadori). «Per tutti, il match di Reykjavik mise l’uno di fronte all’altro il campione del mondo libero e il colosso dell’Unione Sovietica, Paese che faceva degli scacchi un punto di forza - dice Adinolfi al CdT - Ma Spassky, già allora in odore di dissidenza, era un signore dai tratti borghesi, elegante, quasi aristocratico, che non amava la spietatezza del gioco politico; mentre Fischer, che aveva accusato pubblicamente i sovietici di barare, in realtà nutriva per loro una segreta ammirazione, avendo studiato ed essendosi formato sulle partite dei giocatori russi. La sua vera battaglia era un’altra: il professionismo negli scacchi. La politicizzazione dello scontro faceva parte della giostra che invase i media di tutto il mondo, ma alla quale i due campioni rimasero estranei». Vero è, sottolinea Adinolfi, che «da qualunque parte la si guardi, questa storia - infiltrata dal Kgb, attenzionata dalla Casa Bianca, intrisa di significati politici a dispetto dei protagonisti, disputata in mezzo a infinite polemiche, rilanciata carica di enfasi ideologica da tutta la stampa mondiale - è un perfetto rivelatore di quale intensità possa raggiungere la lotta politica, e di come le cose, tutte le cose, anche una partita a scacchi, ne possano subire l’attrazione, una volta entrate nel suo campo». Ma gli scacchi, aggiunge Adinolfi, «sono uno specchio lievemente anamorfico, riflettono sì la vita ma la deformano anche. Se il match di Reykjavik ci permette di ragionare sul senso più profondo della politica, ovvero la diade amico-nemico, ci insegna anche quanto grande sia l’animo umano», e capace di mostrare fino all’ultimo la propria dignità. E spiega forse perché Spassky, pur sapendo di andare incontro alla sconfitta sotto i riflettori più potenti che siano mai stati accesi su una partita di scacchi, seppe tributare a Fischer tutti gli omaggi, e nonostante le bizze del campione americano, lo difese fino all’ultimo dei suoi giorni.