Quei videogame che rendono i cervelli più elastici

GINEVRA - Un milione di franchi per dirci che i videogiochi fanno bene alla nostra salute? Non è proprio così. Anzi, non è così. Ma c’è del vero. È vero che Daphné Bavelier è stata ricompensata con il Klaus J. Jacobs Research Prize, dotato di un milione di franchi. Ed è vero che i videogiochi, alcuni videogiochi, stando alla ricerca della professoressa ginevrina e del suo staff, possono avere anche degli effetti positivi. Possono, ma soltanto in determinati contesti e con precisi dosaggi. Neanche fossero medicine. Curati con i videogiochi: non male.
Il fatto, innanzitutto: la ricerca che diventa premio, alimentando così nuove tappe della ricerca stessa. Il premio è il Klaus J. Jacobs Research Prize, assegnato sin dal 2009 proprio nell’ambito dei lavori scientifici. In questo caso – è storia di pochi giorni fa –, a essere premiata è stata la ricercatrice ginevrina Daphné Bavelier, professoressa alla facoltà di psicologia e di scienze dell’educazione dell’università di Ginevra. Al centro della distinzione, le sue ricerche sui benefici dei videogiochi d’azione sulla plasticità cerebrale. I videogiochi, già. Un caso, o giù di lì. «Potevano essere broccoli, invece sono videogiochi», ci dice la stessa Bavelier. «Come siamo arrivati ai videogiochi d’azione? Per caso», appunto. «Mi sono sempre interessata alla plasticità cerebrale. Nel corso di una ricerca sulla concentrazione, sul controllo dell’attenzione, siamo caduti in un finto errore statistico. Non si trattava di un errore. Semplicemente un mio collaboratore, nel test, aveva utilizzato non soggetti diversi come gli avevo chiesto, bensì alcuni suoi compagni di un club di videogiochi. In particolare giocavano a videogiochi cosiddetti sparatutto. Da lì la riflessione: i videogiochi action possono avere degli effetti benefici sull’attenzione».

Già, ma perché proprio quelli d’azione? «Hanno tre caratteristiche meccaniche decisive: chiedono risposte veloci, un’attenzione distribuita sull’intero schermo e un’attenzione invece esclusiva al preciso particolare. Insomma, si passa da uno stato attenzionale all’altro, da quello globale a quello più focalizzato. Tutti i videogiochi hanno degli effetti sull’attività cerebrale, ma non tutti producono gli stessi effetti. Alcuni giochi fanno aumentare il controllo attento, altri lo fanno diminuire. Poi occorrono delle tempistiche ben precise. Noi non abbiamo domandato a nessuno di giocare per dieci ore di fila tutti i giorni, bensì di giocare mezz’ora o un’ora al giorno, da tre a cinque volte la settimana, per un totale di cinquanta ore distribuite sull’arco di due mesi».
Broccoli e cioccolato
I risultati delle ricerche effettuate hanno sorpreso Daphné Bavelier e il suo staff. «Sì, all’epoca poi i videogiochi erano considerati una perdita di tempo. Nessuno pensava potessero essere addirittura utili. Ma ci sono ancora molte altre cose da scoprire, sull’argomento». Ci sono delle ombre da scovare, magari gli effetti sull’empatia. E poi quelli dell’eventuale violenza di alcuni giochi. «Non abbiamo ancora sviluppato questi aspetti, ma stiamo andando anche in quella direzione. Va detto che non tutti i videogiochi d’azione sono per forza violenti. Ce ne sono alcuni in cui ci si muove su pianeti di animali malati, con il compito di curarli. Ecco, le caratteristiche meccaniche magari sono le stesse, ma una cosa è curare un animale, un’altra è uccidere un uomo. Nel quadro dei videogiochi terapeutici, si lavora in questa direzione». Già, ma come fare a rendere attrattivi i videogiochi terapeutici? Daphné Bavelier li paragona ai broccoli, così come definisce cioccolato l’attrattività dei videogiochi che vanno per la maggiore. Ma, dice, per rendere attrattivi i videogiochi terapeutici non basta coprirli d’attrattività. «Chi vuole mangiare dei broccoli coperti di cioccolato?». Va piuttosto trovato un nuovo concetto, estrapolando il meglio del cioccolato e il meglio dei broccoli.
Un regime individuale
In tutti i casi, l’idea è quella di lavorare nell’ambito riabilitativo. Ma per quanto concerne la ricerca, per ora ci si deve basare sui prodotti in commercio. Nello studio in questione, il gioco utilizzato è stato, per esempio, il noto Call of Duty. «Nella ricerca non abbiamo budget né conoscenze per poter pensare di produrre noi stessi dei giochi. Chi li fa ha a disposizione grandi squadre di professionisti. La prossima sfida guarda proprio lì però».
Vanno insomma unite le forze. Un conto è dirlo, un altro è farlo. «Ci si prova. Resta il fatto che i giochi non devono essere troppo seriosi: i giochi sono giochi. Per il futuro bisogna poi ragionare, sulla base anche delle ricerche, a cosa funziona per chi. Sì, perché un videogioco alla fine è come lo zucchero: non fa a tutti lo stesso effetto. C’è un regime di consumo individuale. E ci sono addirittura modi diversi per giocarli. Pensiamo a questi giochi sparatutto. C’è chi li gioca orientandosi nello spazio soprattutto sulla base delle mappe e c’è chi invece lo fa sulla base di ciò che vede, dell’ambiente, dei punti di riferimento. Chi sfrutta le mappe vede crescere il proprio ippocampo, chi sfrutta invece i riferimenti spaziali sullo schermo lo vede restringersi. Insomma, la materia è complicata».
Al centro del dibattito
Ecco, si capisce allora che la questione non ha nulla a che fare con l’abituale dicotomia – i videogiochi sono buoni o cattivi – «Non è più d’attualità. Ora bisogna capire come utilizzare i videogiochi per ottenere un impatto positivo sullo sviluppo dei bambini, sulla società in generale, e come invece evitare un impatto negativo. Ciò vale per ogni aspetto delle nostre vite. Lo dico sempre: noi ci siamo imbattuti un po’ per caso nei videogame, ma se avessimo scoperto che questi stessi effetti erano dati dai broccoli, ora staremmo parlando dei broccoli». I broccoli che ritornano. «I giochi hanno un enorme potenziale: vanno presi i loro aspetti positivi per poi canalizzarli, sottolineando in parallelo gli aspetti negativi, per responsabilizzare le case di produzione». Il premio ricevuto – per la precisione verrà consegnato nel corso di una cerimonia a Zurigo il prossimo 22 novembre – è un riconoscimento al lavoro svolto da Daphné Bavelier e dal suo staff. «L’aspetto positivo, al di là del riconoscimento, è il fatto che il gioco torni a essere al centro del dibattito, specie nell’ambito delle neuroscienze. Per quanto ci riguarda, il nostro obiettivo ora è di capire quale sia lo stato cerebrale mentre si gioca. Sappiamo tutto di cosa accade mentre dormiamo, conosciamo i differenti stati del sonno, ma nulla in relazione ai giochi. Tra i vari stati che viviamo quando giochiamo, ce ne sono magari alcuni che ci preparano a imparare? È difficile studiare l’attività cerebrale durante il gioco, per via del movimento. Sui videogiochi si sfrutta perlomeno la staticità. La ricerca è incrociata, su bambini, adulti e animali. Tra i differenti stati dovremo scoprire appunto quali siano i più propizi alla plasticità cerebrale. Vogliamo rimettere il gusto del gioco al centro del sistema educativo, anche per tornare a favorire l’esplorazione, che è stata via via limitata dalle nostre abitudini di vita».
L'intervento per TEDx e altre pillole
Lo studio
La ricerca ha messo in luce l’impatto positivo dei videogiochi d’azione (più o meno violenti, non sta lì il punto) sulla plasticità cerebrale e sull’apprendimento. Un impatto dovuto alla stimolazione di varie facoltà cognitive, la vista, la rotazione mentale, l’attenzione rispetto alle distrazioni, la capacità di passare velocemente da un compito a un altro. Da vedere il suo intervento al TEDx realizzato a Losanna.
Le cifre del settore
Il business dei videogiochi è in continua crescita. Secondo il Global Games Market Report stilato il mese scorso da Newzoo, azienda specializzata in ricerche di mercato, nel mondo ci sono più di 2,5 miliardi di giocatori. Questa enorme massa di persone spenderà – secondo le previsioni – 152,1 miliardi di dollari entro fine anno. Il settore che ha visto il maggiore incremento rispetto al 2018 è quello delle «console» (XBox, PlayStation, ecc.) con una previsione di crescita del 13,4% a 47,9 miliardi di dollari. Il 48% di tutti i soldi spesi per i videogiochi proviene da Cina e Stati Uniti, con gli USA a superare per la prima volta dal 2015 la Cina a livello di guadagni (36,9 miliardi contro 36,5 miliardi).