Quel divieto e le domande che vogliamo schivare

Cosa c’entra lo smartphone con l’ora di lezione in classe? E cosa con la scuola in genere, pause e mensa compresi? E allora che senso ha pure l’uso del telefonino a tavola in famiglia, come pure la sera sul divano mentre si guarda la televisione? Ma anche sul posto di lavoro o durante una riunione? Il dibattito è lanciato con l’iniziativa popolare per dare un giro di vite, nella forma del divieto, nel mondo dell’istruzione che invero, motu proprio, si è già mosso mettendo puntuali paletti. Limitarci alla proposta sul tavolo sarebbe un errore, finanche ipocrisia pura da parte del mondo degli adulti.
Se c’è da aprire un libro, espressione passata ormai di moda per effetto della digitalizzazione e della velocità impartita anche dall’IA, dobbiamo farlo senza tabù e metterci in gioco tutti. La prima generazione di giovani integralmente digitali è realtà, come pure quella degli adulti che, magari da autodidatti, hanno fatto proprio lo smartphone e ne sono rimasti soggiogati almeno quanto i più giovani. Il denominatore unico intergenerazionale è fondamentalmente il medesimo: sono dipendente, ma non lo ammetto. Accampo le più disparate scuse per motivare la mia dipendenza digitale. Sfatare questo tabù sarebbe l’irrinunciabile punto di partenza, con l’obiettivo di arrivare assieme e consapevoli al punto d’arrivo. Coscienti che la tecnologia è un mezzo, non il fine della nostra vita. La socializzazione, quella autentica, si costruisce con il rapporto «face to face» e non da schermo a schermo, da audio a audio, o peggio ancora tramite social. Occorrerebbe un patto sociale, ma non banalmente social. Facile a dirsi, non a farsi.
La discussione sul divieto del telefonino a scuola è appena cominciata, ma non ci si potrà esimere dall’allargare il discorso agli adulti. Lo diciamo senza troppe esitazioni. I divieti non ci piacciono, sono l’ammissione di una debolezza, di una sorta di fallimento. Poi non dimentichiamo che di fronte a un divieto la mente umana si esalta nell’intento di aggirarlo. E ancora di più i giovani che lo interpreterebbero come una mossa anacronistica, genererebbe resistenze e porterebbe, in un modo o nell’altro, alla trasgressione. L’intento dell’iniziativa è lodevole, ma il fine utopistico: intervenire per mettere un nodo a scuola durante le lezioni e nel corso della giornata scolastica merita di entrare in materia (e di andare oltre). Non ammetterlo integralmente nel perimetro scolastico, quindi nella cartella e nel percorso casa-scuola, appare una mossa esagerata e inapplicabile. Anche perché rischia di spezzare sul nascere l’indispensabile collaborazione tra il mondo della scuola e la famiglia. Se il primo passo risulterà scoordinato, quelli successivi non saranno mai armonici. È difficile che i genitori si privino della possibilità di restare in contatto con i propri figli nel corso dell’intera giornata ed è irrealistico credere che ragazzi delle medie escano di casa denudati del proprio smartphone. Poi è chiaro che il telefonino in classe (vale per allievi e docenti) è insano e genera una distrazione continua e l’insopprimibile tentazione di filmare e registrare.
È lo stimolo per il cyberbullismo. Sostenere che si tratta di uno strumento didattico è una motivazione che non ci convince, pare essere solo una scusa per rimanere sempre online. Per i ragazzi il telefonino è anche uno status symbol, per ostentare l’ultimo modello, la cover o lo schermo che colpiscono, generando così una insana competizione consumistica. Disconnettersi non è una malattia, tutt’altro. È forza. Staccare occhi e dita dallo schermo è una prova utile, che andrebbe messa in atto da giovani e meno giovani. In apparenza può generare disagio e questo è già un campanello d’allarme che ci indica quanto abbiamo da lavorare per gestire la nostra ansia e costruire un rapporto umano più autentico rendendoci conto del nostro grado di dipendenza dalla tecnologia. In definitiva possiamo anche affermare che il problema non è tanto (o solo) «vietare o no», ma come educare a un uso consapevole, dentro e fuori dalla scuola, in una società in cui gli adulti per primi non hanno ancora trovato un equilibrio con la tecnologia. Pretendiamo di insegnare ai nostri ragazzi una certa rettitudine sociale, ma siamo i primi a scivolare sulla classica buccia di banana. Unicamente rispondendo alle tante domande che vorremmo evitare ci renderemo conto di quanto noi adulti saremo pronti per affrontare con i nostri ragazzi il tema della moderazione e maturazione. Se il mondo «dei grandi» fosse consapevole e maturo forse non occorrerebbe neppure un divieto tassativo. Se l’adulto non è conseguente nel parallelismo di quella che è la vita scolastica (il lavoro), la legittimità della norma è già precaria in partenza. Meditiamo cari adulti, meditiamo.