«Quella Locarno partigiana tra dolore, ferite e speranza»

Dove oggi trova spazio uno stabile moderno della Supsi, un tempo sorgeva l’Ospedale regionale di Locarno «La Carità». Un nome, un programma, hanno detto in molti alla cerimonia della posa della targa avvenuta oggi. Sulla parete sinistra della scalinata, ora una lastra ricorda «tutte le persone che cercarono e trovarono rifugio nel Locarnese negli anni 1943-1945». La stessa esprime poi riconoscenza nei confronti del personale del nosocomio, «che molte ne curò e ne salvò».
«Oggi più che mai è importante individuare le necessità di chi proviene da zone di conflitto o vive situazioni di guerra. Per questo ritengo che iniziative come questa abbiano un valore politico concreto», ha dichiarato la consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti al Corriere del Ticino, al termine della mattinata di conferenze svoltasi nell’aula magna dell’edificio «storico» del Dipartimento formazione e apprendimento della Scuola universitaria.
Un passato quasi sconosciuto
Si celebra, quindi, l’aspetto quasi sconosciuto (il cui impatto è andato perduto nel tempo anche a causa di un allagamento degli archivi della struttura) di una Locarno «partigiana» all’interno di una Svizzera neutrale. Una città pronta ad accogliere attivisti e bambini in fuga dal regime fascista italiano dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola.
Il momento coincide con l’80. dalla fine della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, con il Centenario del Patto della pace, i cui colloqui si erano svolti appunto dal 5 al 16 ottobre 1925. «In prima linea, anche negli anni Quaranta, c’era sempre il sindaco Giovambattista Rusca, che si spinse oltre i limiti legali concessi dalla sua carica istituzionale», ha evidenziato il suo omologo attuale, Nicola Pini, citando un episodio raccontato nel libro di Paolo Bologna, «Il Paese del pane bianco», che raccoglie testimonianze di chi trovò rifugio in Svizzera: «Andò personalmente a Domodossola, portò qui dei bambini e si assicurò che fossero curati».
«Eroi silenziosi»
Ecco perché la nuova insegna rappresenta «un ringraziamento agli eroi silenziosi che offrirono sollievo, assistenza e solidarietà a chi fuggiva dagli orrori del conflitto. È un gesto che fa parte dell’identità locarnese e di cui un sindaco non può che essere fiero», ha evidenziato il 40.enne che guida il Municipio attuale.
All’idea - promossa dal Gruppo per la memoria 1943-1945 e del quale già in estate erano state piazzate una serie di «pietre d’inciampo» ai Bagni di Craveggia, come riferito nell’edizione del 13 agosto - si affianca poi un innovativo progetto didattico rivolto ai docenti delle scuole medie, il cui sviluppo è alle battute finali. «Abbiamo quindi creato quattro percorsi didattici il cui focus è sull’accoglienza e sulla solidarietà, in un’ottica di educazione civica e alla democrazia», ha spiegato Lisa Fornara, docente al Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi, che ha realizzato l’elaborato, presto disponibile, con Sonia Castro Mallamaci, professoressa associata in Didattica della storia.
La testimonianza del padre
Tra gli ospiti della giornata, anche Giovanna e Massimo Bianchi, che hanno portato la testimonianza del padre Adriano, allora ricoverato per 40 giorni: «Per lui fu un’esperienza di recupero della speranza, pur tra dolori insopportabili e l’incertezza di perdere la gamba. Ricordava quei giorni come “meravigliosi”: pensare che, in una condizione simile, li definisse così, significa che ricevette una straordinaria carica di affetto e umanità», ha ribadito Massimo.
NOTA DI REDAZIONE: La persona inizialmente indicata nella didascalia della foto di copertina—e nella versione andata in macchina—come Giovanna Bianchi, è in realtà Caroline Marcacci Rossi, presidentessa del Gruppo per la Memoria 1943-1945. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori per l'errore.
