L'incontro

Quella volta che gli Escobar si rifugiarono in Svizzera

A colloquio con il figlio di uno dei più potenti narcotrafficanti della storia — «Mio padre? Una contraddizione: mi ha insegnato le lezioni più importanti ma, al contempo, le sue azioni andavano nella direzione opposta»
Mattia Darni
12.09.2022 09:02

Suo padre, Pablo Escobar, è stato uno dei più potenti e sanguinari narcotrafficanti che il mondo abbia mai conosciuto. Sebastian Marroquìn, questa l’identità assunta con l’obiettivo di garantirsi una vita tranquilla, nasce in Colombia con il nome di Juan Pablo e vive la prima parte della sua esistenza in un clima di violenza. Dopo la morte del genitore, cresce in Argentina e si laurea in architettura.

Diviso tra due poli

«La mia infanzia si può dividere in due fasi distinte: quella prima dei miei sette anni e quella immediatamente successiva», esordisce Sebastian Marroquìn. «A fungere da spartiacque è l’entrata in politica di mio padre. Prima di allora conducevo un’esistenza tutto sommato normale. Quando però mio padre decise di tentare una carriera di tipo istituzionale, fu accusato di essere un narcotrafficante e ciò mise di fatto fine alle sue aspirazioni nella cosa pubblica. Egli si sentì umiliato dalla vicenda e così fece uccidere il Ministro della Giustizia Rodrigo Lara Bonilla. Da quel momento la mia famiglia si separò, non potemmo più vivere nel lusso di prima e fummo costretti a spostarci in continuazione».

Mio padre è sempre stato una contraddizione perché mi ha insegnato le lezioni più importanti che un genitore possa trasmettere al proprio figlio, ma, al contempo, le sue azioni andavano nella direzione opposta

Essere il primogenito di uno degli uomini più pericolosi del mondo, va da sé, non deve essere una cosa semplice pure dal profilo psicologico in quanto, da una parte, si ha la figura di un padre amorevole e disposto a tutto per la sua famiglia e, dall’altra, quella del capo della più grande organizzazione criminale del secolo scorso.

«Ho sempre distinto in modo netto la figura di Pablo Escobar padre da quella di Pablo Escobar narcotrafficante», spiega Marroquìn. «Per me mio padre è sempre stato una grande contraddizione perché mi ha insegnato le lezioni più importanti che un genitore possa trasmettere al proprio figlio, ma, al contempo, le sue azioni andavano nella direzione opposta».

Ma quale delle due figure prevale nell’animo di Sebastian Marroquìn? «Per me la più importante è quella del padre, ma capisco che per il resto del mondo sia il contrario».

La svolta

La vita del nostro interlocutore, insomma, non è stata facile, tanto che, come detto in precedenza, ha dovuto cambiare anche identità per vivere in pace. Ad un certo punto, però, fa marcia indietro e rivela al mondo chi è realmente. «In realtà non è stata una mia decisione», svela Marroquin. «È il destino che ha voluto così. Fui vittima di un tentativo di estorsione da parte di una persone che scoprì la mia identità e minacciò di renderla pubblica se non lo avessi pagato. Ho sempre sentito la necessità di riconciliarmi con le vittime di mio padre e di chiedere loro scusa: questa vicenda me ne ha dato l’occasione».

Da allora ha cominciato un’opera di sensibilizzazione contro la violenza che è stata riconosciuta anche dal comitato e dalla direzione di Endorfine, festival di cui è stato ospite ieri, che gli hanno conferito il Premio Marco Borradori.

«Lavoro con diversi Governi soprattutto dell’America Latina», chiarisce il nostro interlocutore. «Il mio compito è di spiegare alle giovani generazioni che la strada imboccata da mio padre è sbagliata e che quindi non devono percorrerla anche loro. Film e serie TV con al centro mio padre hanno infatti veicolato un’immagine sbagliata di lui, quella di un uomo di successo che ha una vita molto glamour. Da figura negativa, egli si è trasformato in modello da seguire. La mia speranza è che, avendo io vissuto quel tipo di vita e sapendo quindi di cosa parlo, il mio messaggio venga creduto e ascoltato».

La parentesi luganese

La vicenda di Escobar è conosciuta a livello mondiale, forse, però, non tutti sanno che, negli anni Novanta, il re del narcotraffico mandò la propria famiglia in Svizzera per proteggerla da cartello di Cali.

«Abbiamo vissuto per circa otto mesi a Losanna. In questo periodo approfittavamo dei fine settimana per viaggiare alla scoperta del Paese e, così, abbiamo passato qualche giorno anche a Lugano. Purtroppo, però, alla fine abbiamo dovuto lasciare anche la Confederazione perché il cartello di Cali ci trovò».