L’intervista

Scatti polari: l’occhio ticinese nel cuore del cambiamento climatico

Ormai evidenti ai più, le conseguenze del progressivo riscaldamento terrestre innescato dall’Uomo stanno colpendo in modo particolarmente duro le regioni polari - Ne abbiamo parlato con qualcuno che questi ambienti li respira da decenni: la «conservation photographer» Daisy Gilardini
© Daisy Gilardini Photography
Giacomo Butti
11.02.2022 06:00

«Cambiamento climatico». Due parole ed è subito preoccupazione. Che mondo sarà quello nel quale vivrà l’Uomo tra 100 anni? Quanto profondamente ambiente e società verranno mutati dalle conseguenze del progressivo, micidiale, riscaldamento terrestre? Le previsioni più ottimistiche sono quantomeno grigie. Non parliamo di quelle pessimistiche. Ma le nostre latitudini, per ora, sono lontane dal vero dramma: a pagare lo scotto dell’impietosa attività umana sono soprattutto le regioni polari, che negli ultimi decenni hanno visto le temperature salire vertiginosamente e i livelli del ghiaccio assottigliarsi sempre più. Quali le conseguenze per chi ci vive? Com’è cambiata la vita per chi, fra pinguini e orsi polari, ha potuto osservare la rapida evoluzione dei paesaggi? Ne abbiamo parlato con Daisy Gilardini, «conservation photographer» ticinese stanziatasi in Canada e attiva da anni fra Artide e Antartide.

Nel corso della sua carriera ha lavorato a lungo negli ambienti polari. Può dire di aver vissuto da vicino anche le conseguenze dei cambiamenti climatici?
«Negli ultimi 25 anni ho concentrato il mio lavoro sulla documentazione delle regioni polari. Sia l’Artico che l’Antartico occupano un posto molto speciale nel mio cuore, non solo per le specie facilmente riconoscibili e iconiche come i pinguini e gli orsi polari, ma perché questi animali simboleggiano una delle problematiche ambientali più scottanti del nostro tempo: i cambiamenti climatici. Ho partecipato a più di 90 spedizioni in queste regioni e chiaramente ho potuto constatare i cambiamenti in prima persona. Nonostante si pensi che i poli siano regioni simili ma geograficamente agli opposti del globo, in realtà sono estremamente diversi fra loro. L’Artico è un oceano coperto da un sottile strato di ghiaccio marino (per ora definito perenne) e circondato da terra, mentre l’Antartide è un continente coperto da una calotta di ghiaccio molto spessa e circondato dall’Oceano Antartico. È quindi facile intuire come i cambiamenti in queste due parti del globo siano simili ma allo stesso tempo diversi. Durante le mie spedizioni ho avuto la fortuna di quasi circumnavigare tutto il continente antartico ma ne ho visitato regolarmente solo la Penisola».

Quali cambiamenti ha riscontrato nel corso delle sue visite della Penisola Antartica? Come hanno colpito la fauna locale?
«Negli ultimi 20 anni nella regione si sono verificate più precipitazioni sotto forma di neve a causa di una maggiore evaporazione. Questo si traduce in un ritardo nel ciclo di riproduzione dei pinguini che hanno bisogno di sassolini per costruire il loro nido. Nel frattempo il numero di individui di alcune specie ha subito una diminuzione (pinguini dal Mento a Strisce e di Adelia), mentre altre un aumento (Pinguini Papua). Questo è dovuto al fatto che i pinguini dal Mento a Strisce e di Adelia si nutrono principalmente di krill, il quale dipende dal ghiaccio, mentre la dieta dei pinguini Papua è più variata. In estate, poi, le temperature sono più alte e vi sono più giorni di pioggia, la quale influenza il successo di riproduzione dei pinguini. Copiose e frequenti precipitazioni inondano i nidi, raffreddando le uova in incubazione facendo morire gli embrioni. Nel caso in cui i pulcini siano già nati, la pioggia bagna le loro piume non impermeabili, facendoli spesso morire di freddo. Oltre a ciò ho potuto riscontrare la presenza di nuove specie di piante ed insetti».

© Daisy Gilardini Photography
© Daisy Gilardini Photography

E nell’Artico?
«Nell’Artico la situazione è ancora peggiore. Negli ultimi 50 anni l’estensione della sua calotta polare è diminuita del 48% da 6,45 milioni di chilometri quadrati a soli 3,36 milioni. Il fatto più allarmante è che a ridursi non sia solo l’estensione ma anche lo spessore del ghiaccio (indicatore della sua età). I ricercatori osservano una transizione verso un ghiaccio più giovane e quindi più sottile, fragile e che si scioglie più rapidamente. Il ghiaccio marino di cinque anni è diminuito di circa il 90% dal 1979. Tutti questi fenomeni hanno un impatto importante sulla salinità dell’acqua, le correnti, l’assorbimento del calore solare dell’acqua (maggiore del ghiaccio in quanto il bianco riflette i raggi solari, mentre il blu dell’oceano li assorbe), l’espansione termica degli oceani e quindi il flusso delle correnti marine. Tutti elementi che influenzano chiaramente anche le creature marine che abitano queste regioni, orsi polari inclusi. I dati storici della subpopolazione di orsi polari della Baia di Hudson occidentale in Manitoba, Canada, mostrano che gli orsi passano più tempo sulla terraferma, perché il ghiaccio si forma più tardi nella stagione e si scioglie prima la primavera successiva. Il numero medio di giorni che gli orsi trascorrono sulla terraferma, senza accesso alla loro fonte di cibo principale, le foche, è cresciuto costantemente negli ultimi 40 anni. Fra il 1980 e il 1989 erano 107 giorni. Fra il 2005 e il 2015 erano già 130. Oggi sono 178. Le conseguenze possono essere drammatiche. Questa particolare subpopolazione, la più studiata al mondo, è diminuita del 30% dai primi anni ‘80».

Lavorare in questi ambienti è divenuto più difficile negli ultimi decenni? In quale dei due, Artico o Antartico, ha riscontrato più difficoltà?
«A livello professionale direi che è molto più difficile lavorare nell’Artico in quanto i soggetti sono molto più scarsi che in Antartide, dove la concentrazione di fauna è stupefacente. Inoltre, le temperature che affronto quando fotografo nell’Artico in inverno sono decisamente inferiori a quando fotografo in estate in Antartide. In febbraio quando le mamme orse emergono dalle loro tane con i cuccioli di 4 mesi, le temperature possono raggiungere anche i – 50 °C con fattore vento. I cambiamenti nella professione negli ultimi anni sono più legati all’evoluzione delle tecnologie che ai cambiamenti climatici. Una volta ci si poteva guadagnare da vivere semplicemente fornendo immagini alle agenzie fotografiche. Oggi è molto più complicato. Per essere al top nel settore al giorno d’oggi, specialmente in un campo così competitivo come la fotografia naturalistica, non è più sufficiente avere una macchina fotografica e uscire a scattare. Nell’era dei social media dobbiamo essere “storyteller”, narratori, scrittori, giornalisti, piloti di droni, videografi, tecnici del suono e altro ancora. Ci viene chiesto di catturare la vita dall’aria e sott’acqua, usando di tutto, dalle trappole per telecamere alle action camera ad alta velocità».

© Daisy Gilardini Photography
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Secondo un recente articolo del Daily Telegraph, nel mare di Beaufort meridionale la popolazione di orsi polari è calata del 40% fra il 2001-2010, questo perché (secondo uno studio) molti starebbero migrando in Russia. Un tale spostamento ha messo in difficoltà i fotografi? Anche lei ha dovuto attraversare lo Stretto di Bering?
«In passato ho fotografato gli orsi in Russia ma non a causa delle loro migrazioni. Gli scienziati distinguono 19 diverse subpopolazioni di orsi che vivono sulla banchisa circumpolare artica. Scambi e migrazioni sono possibili e sono legate all’estensione del ghiaccio. In genere la vita di un orso polare è ritmata da due stagioni: l’inverno è la stagione dell’abbondanza con la caccia alla foca sulla banchisa, mentre l’estate, quando l’assenza di ghiaccio spinge gli orsi a raggiungere la terraferma, è la stagione del digiuno. Affermare che la popolazione nel mare di Beaufort Meridionale è migrata in Russia è un’affermazione azzardata e difficile da provare scientificamente. La stima delle popolazioni di questa specie è estremamente costosa e difficile per via del vasto ed inaccessibile habitat e la bassa densità di individui. Durante gli ultimi 50 anni i fondi e le tecnologie a disposizione per lo studio di queste popolazioni sono migliorati esponenzialmente specialmente in Nord America, tanto da rendere i paragoni tra i dati raccolti e le stime statistiche dall’inizio degli studi ad oggi, poco attendibili. Inoltre, le informazioni disponibili per quanto concerne le popolazioni in Russia sono scarse, obsolete e dubbiose in quanto i fondi destinati a queste ricerche sono praticamente inesistenti. I dati più attendibili sono quelli relativi agli studi della popolazione Baia di Hudson in Manitoba, Canada, per il facile accesso alla regione. Di fatto si tratta della popolazione più meridionale di tutte e l’accesso è facilitato dalla presenza della cittadina di Churchill, capitale mondiale degli orsi bianchi. In questa regione gli studi sono stati finanziati regolarmente e i dati confermano una diminuzione della popolazione di ben il 30% dai primi anni 80’. Estendere i dati ottenuti da questi studi a tutte le altre 18 subpopolazioni è sicuramente azzardato. L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) classifica ufficialmente l’orso polare come «Vulnerabile» nella sua Lista Rossa delle Specie Minacciate. La ragione principale è la perdita di habitat dovuta ai cambiamenti climatici. Ma questo non è l’unico problema a cui gli orsi polari devono far fronte.

Il cambiamento climatico è reale e chiaro a tutti. E lo stesso vale per la minaccia alla specie

La popolazione mondiale di orsi polari è ottimisticamente stimata tra i 22.000 e i 31.000 individui, di cui circa il 60% vivono in Canada. Circa 600 permessi di caccia ufficiali sono concessi ogni anno a cacciatori nativi Inuit in Canada: il 2% della popolazione ogni anno, solo in Canada. A questi vanno aggiunte le uccisioni permesse in caso di difesa personale che sono difficilmente comprovabili, i casi di bracconaggio e i dati totalmente sconosciuti delle uccisioni in Russia. Un altro grande fattore di stress per la specie è la presenza di inquinanti tossici antropogenici nella catena alimentare. Inquinanti che si accumulano nei grandi predatori causando loro gravi problemi di salute, come il cancro, e problemi a livello del sistema immunitario e della riproduzione. Popolazioni indigene, cacciatori, scienziati, ricercatori e politici hanno tutti opinioni molto diverse sulle fluttuazioni della popolazione degli orsi polari. Queste opinioni sono dettate da interessi personali e credenze di partito. Un fatto rimane, però, indipendentemente dalle opinioni: il cambiamento climatico è reale e chiaro a tutti. E lo stesso vale per la minaccia alla specie».

Tra i suoi scatti troviamo immagini provenienti da altri continenti. Anche in queste differenti regioni ha potuto osservare le conseguenze del cambiamento climatico? Riguardando i suoi scatti più datati e quelli più recenti nota una differenza palese? C’è una fotografia scattata 20 anni fa che oggi non potrebbe più scattare perché non esistono più le condizioni climatiche adeguate?
«I cambiamenti climatici, purtroppo anche indipendentemente dai miei incarichi professionali e dai miei scatti, sono una realtà quotidiana. Basta guardare il telegiornale. Temperature record, incendi, siccità ed allagamenti, scoscendimenti di terreno sono all’ordine del giorno. Siamo testimoni, tutti, ovunque ci troviamo. Le regioni polari sono come i “canarini” nelle miniere di carbone, campanelli di allarme del pericolo imminente. Purtroppo il campanello di allarme che gli scienziati hanno cominciato a suonare sin dagli anni ’80 è stato ampiamente ignorato ed ora 40 anni più tardi ci troviamo in una emergenza climatica. Se guardo in dietro nel mio archivio fotografico certamente trovo immagini di ghiacciai che sono scomparsi o recessi, e specie che cambiano in numero e localizzazione. Se un tempo la stagione dell’osservazione degli orsi polari a Churchill finiva la prima settimana di novembre, ora si dilunga fino quasi a dicembre in quanto la banchisa non ghiaccia e gli orsi sono bloccati a terra».

© Daisy Gilardini Photography
© Daisy Gilardini Photography

Lei si definisce una “conservation photographer”. Pensa che la crescente consapevolezza del cambiamento climatico sviluppatasi tra i giovani passi soprattutto dalle immagini?
«Certamente. L’era digitale, insieme ai social media, ha aperto più che mai le porte ai fotografi di fauna selvatica e di conservazione, così come agli scienziati. La tecnologia e le piattaforme Internet ora ci permettono di raggiungere più persone, in più luoghi, più velocemente, in modo più efficiente ed efficace, che in qualsiasi momento della storia umana. Stiamo vivendo nell’era dell’informazione. E sebbene problemi come il cambiamento climatico, l’inquinamento e il declino ambientale possano sembrare insormontabili, siamo meglio preparati che in qualsiasi altro momento della storia a diffondere un messaggio di speranza e di rinnovamento soprattutto tra le nuove generazioni. Nella nostra era il consumismo, la tecnologia, l’industrializzazione e l’urbanizzazione formano le basi di una società moderna disfunzionale e malsana. Non solo abbiamo perso la capacità di connetterci tra di noi, ma abbiamo anche perso la connessione con madre Natura. Nelle nostre vite egocentriche non sentiamo più il senso di appartenenza, che è fondamentale per il genere umano per curare, proteggere e preservare. Per riscoprire la nostra istintiva e primordiale connessione con la Natura, dobbiamo far rivivere quel senso di unità e interconnessione. Studi scientifici hanno dimostrato i molti effetti benefici, fisici e mentali, del trascorrere del tempo nella natura. La Natura aiuta a ridurre i sintomi di depressione e ansia, aumenta la produzione degli ormoni della felicità, endorfina e dopamina, e incoraggia e migliora la creatività. Allo stesso modo, le immagini della natura e della fauna selvatica aiutano le persone a favorire queste connessioni, suscitando emozioni ed empatia che alla fine portano a cambiamenti comportamentali e al modo in cui guardiamo e agiamo nei confronti del mondo che ci circonda. Questo spesso include l’agire per proteggere habitat e specie in pericolo. Le scienze sociali della conservazione comprendono una vasta gamma di discipline, dall’antropologia ambientale, economia e geografia alla psicologia e sociologia della conservazione, così come il marketing e la fotografia della conservazione. L’arte di creare immagini è estremamente importante quando si tratta di diffondere il messaggio della conservazione.

È mio dovere catturare la bellezza dei luoghi e delle specie a rischio e aumentare la consapevolezza del pubblico

La citazione di Fyodor Dostoyevsky «La bellezza salverà il mondo» è particolarmente rilevante in questo contesto. Anche se il concetto di bellezza è soggettivo ed è influenzato dalla psicologia, dall’ambiente sociale e da fattori culturali, gli esseri umani ne sono naturalmente attratti. La bellezza ispira il meglio di noi. Stimola emozioni e tocca i nostri cuori. La bellezza ha il potere di rallentarci, ci incoraggia a prendere un respiro, a fermarci a riflettere, a provare di nuovo meraviglia. Per me, soprattutto a livello personale, la bellezza mi riempie di speranza. Il potere delle immagini sta nella loro immediatezza. Guida un livello più profondo di elaborazione cognitiva istintiva e di ritenzione. In media, le persone ricordano il 10% di ciò che ascoltano, il 20% di ciò che leggono e l’80% di ciò che vedono. Il cervello elabora le immagini ad una velocità 60.000 volte più veloce del testo. Come “conservation photographer” , sento che è mio dovere catturare la bellezza dei luoghi e delle specie a rischio e aumentare la consapevolezza del pubblico attraverso il potere universale delle immagini. Ognuno di noi, tutto il genere umano, è naturalmente attratto dalla bellezza estetica. È facile capire come gli orsi polari siano diventati simboli iconici di questa emergenza climatica. In cima alla catena alimentare, il predatore apex, re dell’Artico, è anche il più vulnerabile. Condividere immagini di bellissime specie iconiche come gli orsi polari, accompagnate da un testo informativo e educativo e una messaggistica mirata, aiuta le persone a connettersi a livello emotivo e ad agire su un concetto molto più grande e intangibile come il cambiamento climatico. Mentre la scienza fornisce i dati che spiegano i problemi e suggeriscono le soluzioni, la fotografia simboleggia questi problemi. La scienza è il cervello, mentre la fotografia è il cuore. Abbiamo bisogno di entrambi per ispirare e influenzare i cambiamenti comportamentali e le azioni di conservazione. Per la natura e per noi».

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