Dazi

Se l’Europa rallenta, noi soffriamo

Dopo l’intesa tra Stati Uniti e Unione europea, l’economia svizzera guarda agli sviluppi con grande attesa e qualche timore in più - Stefano Modenini (AITI): «C’è preoccupazione, temiamo un’aliquota superiore» - Fabio Regazzi (USAM): «La pressione sui prezzi aumenterà»
©Chiara Zocchetti
Francesco Pellegrinelli
28.07.2025 20:26

Se l’Unione europea forte del suo peso economico e diplomatico è riuscita a strappare un accordo con gli Stati Uniti per dazi al 15%, quali margini di manovra restano alla Svizzera, che parte da un’aliquota del 31%?

Dopo l’intesa tra Washington e Bruxelles, per l’economia svizzera sono ore di grande incertezza e apprensione: «Pur avendo negli anni ridotto la nostra dipendenza, l’Unione europea resta di gran lunga il principale mercato di riferimento dell’economia svizzera», commenta al CdT il direttore di AITI, Stefano Modenini. «Tutto quanto mette in difficoltà gli europei, mette in difficoltà le nostre imprese».

Secondo Modenini è presto per trarre conclusioni, ma gli sviluppi attuali rischiano di rallentare ulteriormente un’economia già indebolita da anni di difficoltà, a partire dalla pandemia: «Nel settore industriale c’è preoccupazione. Sia per quanto esportiamo direttamente negli Stati Uniti; sia indirettamente per i prodotti e i servizi che esportiamo nei Paesi europei e che poi giungono negli USA».

«È chiaramente una brutta notizia per l’export svizzero», gli fa eco Fabio Regazzi, presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM). «È evidente che le aziende svizzere legate alle catene di fornitura europee subiranno ripercussioni. La pressione sui prezzi aumenterà, e i costi aggiuntivi verranno trasferiti alle imprese elvetiche».

Una lettura condivisa anche da Swissmem, che prevede un calo della domanda di prodotti elvetici. Secondo l’associazione dell’industria metalmeccanica, la Svizzera oggi è comunque esposta in quanto «fornisce numerosi prodotti e componenti all’Unione europea». Prodotti e componenti che verranno poi colpiti dai dazi una volta esportati negli Stati Uniti. «Circa il 40% delle PMI svizzere è attivo nell’export», sottolinea al riguardo Regazzi. «Queste aziende saranno colpite, direttamente o indirettamente, dai nuovi dazi. Per queste imprese la preoccupazione non è solo inevitabile, ma del tutto giustificata».

«Non facciamoci illusioni»

Attualmente la Svizzera è ancora in attesa di conoscere la tariffa doganale che verrà applicata ai prodotti elvetici destinati al mercato americano. Il 2 aprile, giorno in cui Trump ha dichiarato guerra al commercio globale, nei confronti della Svizzera si prospettava un’aliquota del 31%. Ora, che cosa dobbiamo aspettarci?

«I primi segnali erano positivi, ma con l’amministrazione Trump è meglio non farsi troppe illusioni», avverte Regazzi. «Le brutte sorprese sono sempre dietro l’angolo. La speranza è che si riesca a siglare un accordo sui livelli europei. Se riusciamo a fare meglio, tanto di guadagnato, ma sarà difficile».

Meno fiducioso, il direttore di AITI: «Per la Svizzera lo scenario potrebbe essere persino peggiore. Temiamo dazi al 20%, soprattutto perché Trump rimprovera alla Svizzera di avere un eccesso di esportazioni rispetto alle importazioni, il che è vero, ma poi ci accusa anche di manipolare i cambi. E questa è l’accusa più insidiosa. Portare a casa dazi inferiori a quelli che si applicheranno all’UE sarebbe certamente un successo».

Un successo che potrebbe consegnare all’economia elvetica un vantaggio competitivo, osserva dal canto suo Swissmem: «Se l’aliquota per la Svizzera sarà inferiore a quella dell’UE, le aziende svizzere beneficeranno di un certo vantaggio tariffario comparativo rispetto ai concorrenti dell’Unione europea». In caso contrario, il settore delle esportazioni svizzero si troverebbe in una situazione di doppio svantaggio. «Sarebbe un duro colpo, inquanto ci troveremmo a rincorrere le imprese europee, che sono anche nostre concorrenti a livello globale. Non solo. Con il franco forte, la nostra competitività ne risulterebbe ulteriormente compromessa», aggiunge Regazzi.

Uno scenario che spaventa anche Modenini, consapevole dei costi di produzione elvetici: «Rincarare una produzione, quella svizzera, già cara di suo nel confronto internazionale, non è certamente un fatto positivo. Le imprese faranno il possibile per restare competitive, incrementando innovazione, efficienza e riducendo i costi. Tuttavia, queste strategie hanno dei limiti oltre i quali non si può andare. Per migliorare davvero servono investimenti, ma la capacità di investimento delle aziende svizzere è stata duramente messa alla prova negli ultimi anni a causa dell’instabilità economica globale». Le prospettive, insomma, sono tutt’altro che rosee.

Farmaceutica e semiconduttori

Un capitolo a parte, infine, riguarda il settore farmaceutico, attualmente escluso dall’accordo tra Stati Uniti e Unione europea. Farmaci e semiconduttori restano infatti esenti dai dazi statunitensi e continueranno a esserlo almeno fino a un’eventuale introduzione di nuove misure da parte degli Stati Uniti. Anche in quel caso, però, l’aliquota applicabile ai prodotti europei in questi due settori non potrà superare il 15%, come previsto dall’intesa raggiunta. In questo caso, anche l’industria svizzera verrebbe colpita, come sottolinea l’associazione svizzera di categoria Interpharma: «Circa la metà dell’export di medicinali delle imprese svizzere verso gli USA passa infatti attraverso l’Unione europea». Questo significa che, pur essendo esentata direttamente, l’industria farmaceutica svizzera subirà le conseguenze dei dazi imposti sui prodotti europei transitanti per il mercato americano. Non a caso – conclude Modenini – «i grandi colossi svizzeri sono già da tempo presenti negli Stati Uniti con unità produttive e centri di ricerca». Recentemente hanno anche annunciato investimenti per miliardi di franchi. Con quali conseguenze? «Non possiamo non temere una delocalizzazione ulteriore di posti di lavoro qualificati dalla Svizzera verso gli USA. Del resto, la farmaceutica rappresenta il 40% dell’export svizzero, e di questo 40%, il 60% è diretto proprio verso il mercato statunitense».