Il tema

«Sullo spopolamento delle valli discussioni allarmistiche e miopi»

Nostra intervista a Carmelia Maissen, presidente della Conferenza dei governi dei cantoni alpini - Con lei parliamo del senso e dei rischi della vita nelle nostre montagne
© CdT/Gabriele Putzu
Paolo Galli
03.08.2024 06:00

Carmelia Maissen (Il Centro) è, da due mesi, presidente della Conferenza dei governi dei cantoni alpini ed è anche consigliera di Stato grigionese, responsabile del Dipartimento infrastrutture, energia e mobilità. Architetto, si era laureata con una tesi sul tema dello sviluppo degli insediamenti nei Grigioni durante il Dopoguerra. Con lei parliamo del senso e dei rischi della vita nelle nostre montagne.

Signora Maissen, arriviamo da giorni di morte e danneggiamenti nelle nostre montagne. Fa (ri)pensare a cosa sia la vita in montagna. Ecco, che cosa significa vivere in valle?
«Questo maltempo, con il triste bilancio di diversi morti, ci dimostra che in montagna siamo particolarmente esposti alla natura. Sia in estate che in inverno. Dopo un periodo in cui le catastrofi naturali sono state relativamente poche, abbiamo perso un po’ di consapevolezza dei rischi naturali. La gente dimentica in fretta, anche per proteggersi, una volta passati un paio di anni, quando è stato l’ultimo disastro naturale».

A Sierre alcune famiglie non potranno rientrare nelle loro case, situate in zone considerate, dopo le recenti alluvioni, troppo pericolose. Sono episodi singoli o c’è il rischio che siano un sintomo di qualcosa di più grande ancora?
«Parlare di reinsediamento o di svuotamento di interi villaggi e valli è esagerato e indifferenziato. Certo, è possibile che singole proprietà esposte debbano essere abbandonate dopo che l’evento è stato analizzato e la valutazione del rischio rivista. Ma si tratterà sempre di misure su piccola scala basate su una situazione di pericolo specifica. In definitiva, ci sarà sempre un rischio residuo; non avremo mai una sicurezza al 100%, né in montagna né sull’Altopiano centrale».

Il riscaldamento globale come e quanto influisce sulla scelta delle famiglie di vivere nelle valli o di abbandonarle?
«Il riscaldamento globale è una sfida globale con un impatto sulla società nel suo complesso. La misura in cui le conseguenze imminenti, come il caldo, la siccità e le piogge abbondanti, influenzano la decisione degli individui di vivere o meno in un determinato luogo, è probabilmente molto individuale. Tuttavia, fa parte della responsabilità personale di un proprietario di casa occuparsi della valutazione del rischio di un luogo e contribuire a ridurlo al minimo adottando misure nella propria sfera di influenza».

Dal suo punto di vista, la politica fa abbastanza per sostenere e stimolare la vita e l’economia nelle valli?
«Una politica per la regione montana ha successo se contribuisce a garantire la vivibilità e l’autonomia della regione alpina e delle sue valli. Ciò richiede un adeguato margine di manovra federalista per soluzioni personalizzate e radicate nel territorio. La tendenza all’armonizzazione e alla centralizzazione che si registra in alcuni ambienti a livello federale è in contrasto con questo obiettivo, e lo osservo con preoccupazione. Allo stesso tempo, va anche detto che gli strumenti di finanziamento statali, nazionali o cantonali, possono solo sostenere l’imprenditorialità e il coinvolgimento della società civile sul campo, ma non possono sostituirla».

In questi ultimi giorni sono sorti in effetti interrogativi sulla pertinenza di nuovi investimenti nelle valli. Come leggerli?
«Queste posizioni giudicano in maniera errata la realtà. La regione montana non è né un’area statica e arretrata dietro le sette montagne né unicamente superficie di proiezione del mito della Svizzera come Paese alpino. La grande ricchezza della Svizzera risiede nella sua diversità culturale, paesaggistica, linguistica ed economica. Ogni regione contribuisce al bene comune con le proprie peculiarità. Lo sviluppo degli ultimi decenni in uno dei Paesi più prosperi ha anche trasformato la Svizzera in un sistema complessivo strettamente collegato in rete, con i motori economici ed educativi delle città, la produzione di energia elettrica rinnovabile, compresa la funzione di accumulo e di ritenzione dei bacini idrici nelle Alpi, lo spazio ricreativo nelle aree rurali e le infrastrutture continue di accesso e di approvvigionamento tra nord e sud, est e ovest, proprio attraverso il centro della regione montuosa, che collegano fisicamente la Svizzera all’Europa. Se, in questo contesto, si ripropone il concetto di “Alpine Brachen” (deserti alpini, ndr), ciò dice più dei promotori di questa idea che della realtà della regione montana».

La politica dei reinsediamenti, secondo la sua sensazione, è in crescita?
«No, non credo che discuteremo di una vera e propria politica di reinsediamento. Chi gestirebbe poi i boschi e i pascoli che, se ben conservati, forniscono un’importante protezione contro i danni di tempeste e valanghe? Chi controllerebbe le dighe o garantirebbe il funzionamento delle autostrade nord-sud A2 e A13, se nessuno vivesse in queste valli? Inoltre, dove dovrebbe trasferirsi la popolazione di montagna? Nei centri urbani che già soffrono di stress da densità? Le discussioni che periodicamente si accendono sullo spopolamento delle valli montane sono allarmistiche, miopi e non tengono conto del fatto che alla fine creano più problemi di quanti ne risolvano».

C’è ancora, secondo lei, in Svizzera, una distanza tra città e montagna? Tra politica e vita in valle?
«Percepisco il rapporto tra montagna e valle, città e campagna, come ambivalente. Da un lato, molte persone trascorrono il loro tempo libero in montagna, godono della natura e hanno un rapporto personale con gli abitanti del luogo o addirittura ne sono coinvolti in un modo o nell’altro. E anche a noi piace trascorrere del tempo nelle città svizzere, godere delle qualità urbane e coltivare le nostre amicizie lì. D’altro canto, mi rendo conto che manca la comprensione di cosa significhi esattamente investire in un’area scarsamente popolata, topograficamente difficile e multilingue, mantenere le infrastrutture e offrire un servizio pubblico completo nello stesso modo in cui i visitatori sono abituati a farlo a casa. Tuttavia, uno sguardo alla storia dimostra che questa tensione urbano-rurale fa praticamente parte del DNA della Svizzera ed è anche un motore di sviluppo. E se riusciamo a trasformarla con costanza in una partnership costruttiva, allora siamo sulla strada giusta».

Sapendo che i rischi di pericoli naturali aumentano - a causa del riscaldamento globale -, quali sono le misure da attuare per contenerli o combatterli?
«Analizzare gli eventi naturali, riconoscere i punti deboli e apportare i miglioramenti necessari è un processo standard e un compito costante nell’ambito della gestione integrale del rischio. Ciò include la revisione delle mappe di pericolosità sulla base delle analisi degli eventi, la considerazione delle possibili mutazioni dovute al cambiamento climatico, il rafforzamento della protezione contro le alluvioni laddove possibile e appropriato e il miglioramento dei sistemi di allerta precoce. Tuttavia, queste misure di adattamento sono solo una faccia della medaglia. L’altra faccia, altrettanto importante, è rappresentata dagli investimenti nella protezione del clima. Questo è necessario per evitare che il clima cambi ancora di più».

Spesso ho l’impressione che dimentichiamo l’efficacia delle misure già introdotte. Quanto hanno influito, positivamente, nel contenere i danni di questi ultimi episodi (in Mesolcina, Vallemaggia e Vallese) per esempio?
«Questa è un’osservazione importante. Negli ultimi 50 anni si è fatto molto e bene. Non riesco neppure a immaginare quanti danni sarebbero stati causati in queste zone senza lo sviluppo di mappe di pericolosità, di sistemi di allerta e la costruzione di innumerevoli strutture di protezione».

In queste settimane, abbiamo sottolineato spesso l’importanza delle nostre valli e montagne, nella definizione della nostra identità collettiva. Qual è, ancora oggi, il ruolo della montagna? 
«La regione montana continua a dare alla Svizzera un forte senso di identità e fa parte della sua ricchezza, sia in senso ideale che economico. La forza della Svizzera sta nel fatto che ogni parte del Paese contribuisce al bene comune con le proprie peculiarità. La regione montana lo fa attraverso la sua diversità linguistica e culturale, la conservazione del paesaggio, l’offerta di attività ricreative e di svago per i turisti, la produzione di energia elettrica locale e rinnovabile e le infrastrutture di trasporto nord-sud ed est-ovest».

La presa di posizione dell’ALPA e di Christian Vitta

Nelle scorse settimane, sul tema aveva preso posizione anche l’Alleanza patriziale ticinese (ALPA). «Il Consiglio direttivo dell’ALPA si distanzia fermamente da alcune considerazioni affrettate espresse da pochi commentatori secondo i quali “alcune regioni di montagna hanno ormai il destino segnato e occorre accettare il loro abbandono”. Sarà per contro determinante prestare ancora maggiore attenzione e supporto a queste regioni che devono assolutamente avere pari dignità ed essere trattate allo stesso modo rispetto alle regioni urbane». Christian Vitta, giovedì, nel suo discorso per il Primo Agosto in Vallemaggia, si è inserito proprio in questo discorso, ricordando che «la valle è viva e crede nel suo futuro».

Tra chi ha espresso prospettive cupe per le valli, il professor Reinhard Steurer dell’Università delle risorse naturali di Vienna, il quale ha previsto che «perderemo spazio vitale nelle Alpi» e che alcune valli si svuoteranno a causa del cambiamento climatico. E gli ha dato ragione anche Lukas Rühli, di Avenir Suisse, secondo cui «probabilmente non potremo evitare di abbandonare singoli insediamenti». A Sierre, alcune settimane fa, a seguito della recente alluvione, le autorità locali avevano dichiarato inagibili alcune abitazioni in zone a rischio, costringendo 141 persone a trasferirsi.

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