Svizzera, doveva essere la volta buona

Sembrava l’occasione buona. La migliore di sempre. Doveva esserlo. E invece, per il secondo Mondiale di fila e per la quarta volta in dodici anni, la Svizzera deve accontentarsi della medaglia d’argento. Considerata un miracolo nel 2013, proprio qui a Stoccolma, ma ora accolta come un magro premio di consolazione. L’oro è sfuggito all’overtime. Ed è giusto così, in una finale dominata dagli americani. Per una squadra ambiziosa, per una generazione di giocatori cresciuti senza complessi d’inferiorità, essere vicecampioni significa essere i primi degli sconfitti. Anche nell’insuccesso, emerge dunque il cambio di mentalità effettuato dal nostro hockey: sognare in grande, puntare alla vetta, essere artefici del proprio destino. Non è bastato. Anche stavolta è mancata l’ultima tessera del mosaico. Ieri è mancato il gioco. È mancata la serenità. Ha prevalso il peso della storia. Onore agli USA, avversari di grande valore, contenuti solo da un incredibile Genoni. E onore ad Andres Ambühl, l’uomo dei record, che ha chiuso la sua carriera a 41 anni, da protagonista. Siamo sicuri che la coppa l’avrebbe alzata lui. Ma questa non è Hollywood.
Oggi la Svizzera atterra a Kloten per ricevere l’abbraccio dei tifosi. Ma in casa rossocrociata, ne siamo certi, c’è poca voglia di festeggiare. Resta un po’ di orgoglio per un’altra rassegna iridata vissuta al vertice, con il primo posto nel girone (per la terza volta in quattro anni), tante partite dominate senza quasi forzare e sei esordienti capaci di lasciare il segno. Ma a prevalere sono tristezza e rimpianti. C’era la convinzione che fosse l’anno giusto. Nei cieli sereni del grande nord, tra Danimarca e Svezia, i pianeti si erano allineati favorevolmente. Tutti i giocatori di NHL selezionabili hanno risposto alla convocazione e non era scontato che le nostre superstar accettassero di raggiungere Herning, sperduta cittadina nel cuore dello Jutland, per dare ancora una volta il loro imprescindibile contributo. «Lo facciamo per spirito d’appartenenza e per la sensazione di poter fare qualcosa di grande», ha spiegato Nino Niederreiter 48 ore dopo essere stato eliminato dai playoff con i Winnipeg Jets. «Questa squadra è una famiglia», ha detto Kevin Fiala, arrivato pochi giorni dopo aver perso il bambino di cui lui e la moglie erano in attesa. L’infortunio di Nico Hischier alla quarta partita, contro la Germania, ci ha privati del capitano, del primo centro, di un leader carismatico e di un giocatore tecnicamente e tatticamente insostituibile. Sfortuna, eccome. Chissà come sarebbe andata con lui in finale. Ma la dea bendata ci ha anche dato una mano, inutile nasconderlo. E lo ha fatto spianandoci la strada. Affrontare l’Austria nei quarti e la Danimarca in semifinale è stato un lusso che la Svizzera si è guadagnata con il primo posto nel girone, ma un percorso così facile non lo avremmo mai potuto immaginare. Poi, certo, Fora e compagni sono stati bravissimi a interpretare il ruolo di favoriti, dominando entrambe le partite. In passato, non sempre era andata così bene contro avversari più deboli di noi. Ma l’impressione è con qualche ostacolo in più sulla strada saremmo arrivati più pronti alla finale. Detto altrimenti, sfidare nell’ordine Norvegia, Ungheria, Kazakistan, Austria e Danimarca (segnando 30 gol e subendone solo uno) non è stata una preparazione ottimale a livello di intensità. Un torneo dal coefficiente di difficoltà piuttosto basso non ci ha permesso di capire quali potessero essere i nostri punti deboli. Emersi ieri, in una serata condita di errori e dischi persi.
Gli USA sembravano l’avversario più abbordabile mai incontrato in una finale, oltretutto in campo neutro e con un tifo chiaramente a nostro favore. Intendiamoci, non è mai stato in discussione il valore tecnico della selezione americana, composta interamente da giocatori di NHL. Ma negli anni - e anche nelle scorse settimane - è sempre emersa la loro attitudine un po’ distaccata. E invece, tra una serata e l’altra trascorsa al pub scozzese di Herning, gli statunitensi hanno saputo forgiare quello spirito di gruppo che li ha portati al primo trionfo mondiale dal 1960, quando il titolo olimpico valeva anche come titolo iridato. Un successo meritatisismo per chi ha chiuso il torneo battendo Cechia, Finlandia, Svezia e Svizzera.
Ai rossocrociati non resta che guardare avanti e ritrovare entusiasmo per un 2026 elettrizzante, con le Olimpiadi appena fuori dalla porta di casa, a Milano, e con i Mondiali di Zurigo e Friburgo. Per Patrick Fischer sarà il decimo anno alla guida della Nazionale. Forse l’ultimo. Per un finale hollywoodiano c’è ancora tempo.