«Il ritorno verso il Big Bang è una questione anche svizzera»

Di fronte all'infinità del cosmo, che cos'è il nostro pianeta? Nemmeno una capocchia di spillo. Pensate un po' la piccola, minuscola, Svizzera. Eppure, nonostante lo sfavorevole gioco di proporzioni, nonostante la lunga lista di grandi nazioni con mire celesti, non deve stupire che tra i protagonisti della ricerca sull'Universo si trovi – sempre più spesso – anche il nostro Paese. Mentre a Ginevra il CERN punta a un nuovo acceleratore di particelle, più grande e potente, Università (UZH) e Politecnico (ETH) di Zurigo si sono resi protagonisti, recentemente, di un nuovo, importante, exploit scientifico. La più grande e complessa missione scientifica dell'ESA (Agenzia spaziale europea), la progettazione dell'antenna spaziale LISA, ha infatti raggiunto nel mese di gennaio una tappa fondamentale e lo ha fatto anche grazie all'importante lavoro dei due atenei svizzeri. Ne abbiamo parlato con il professor Philippe Jetzer (UZH), che da decenni partecipa al progetto.
Le tappe
Il mese scorso, il progetto europeo per il Laser Interferometer Space Antenna (LISA) ha superato con successo la Mission adoption review, un'intensa fase di esami che serve a determinare la maturità tecnologica per la messa in pratica dei progetti spaziali. Dopo aver affrontato una lunga serie di ostacoli tecnici, insomma, LISA è pronta per essere costruita e sarà lanciata nello spazio – si stima – intorno al 2035. Arrivare sin qui non è stata una passeggiata: proprio per questo il via libera arrivato nel mese di gennaio rappresenta qualcosa per cui festeggiare. Parola del prof. Philippe Jetzer, ticinese – cresciuto tra Bellinzona e Lugano – che sin dagli anni Duemila, con il suo team, collabora alla missione.
«L'obiettivo di LISA è osservare le onde gravitazionali nello spazio, onde che stanno alla gravità come quelle elettromagnetiche stanno all'elettricità. La loro esistenza è stata predetta da Einstein nel 1916, ma allora si credeva che – essendo la gravità molto più debole dell'elettromagnetismo – osservarle fosse impossibile. Con il progredire della tecnologia, tuttavia, ci si è accorti che creare una strumentazione con la quale misurare queste onde nello spaziotempo non era utopia. Per questo, negli anni Settanta, si è cominciato a lavorare ai primi rilevatori a terra, quelli che poi – dopo quarant'anni, nel 2015 – hanno permesso di registrare per la prima volta le onde gravitazionali». Negli anni Ottanta, prima ancora che la versione terrestre fosse realizzata, c'era già qualcuno che pensava a un rilevatore spaziale. Un'antenna-satellite con la quale registrare (unità di misura: Hertz) le onde gravitazionali che viaggiano nell'Universo. «La Terra è percorsa da onde sismiche che limitano la precisione dell'osservazione, soprattutto a basse frequenze. Nello spazio, ovviamente, questo problema non si manifesta, permettendoci quindi di osservare onde a frequenze più basse (da 0,0001 Hz a 1 Hz) prodotte da altri oggetti astronomici». L'idea, ci racconta Jetzer, «si è quindi concretizzata nel '93, quando è stata fatta una prima proposta a NASA ed ESA, risultando poi in un rapporto datato '96». Ma la complessità del progetto, con una tecnologia tutta da sviluppare, ha spinto i ricercatori a muoversi con estrema cautela: «Le incognite erano tantissime. Per questo si è deciso, a inizio Duemila, di far precedere al lancio di LISA quello di un altro satellite: LISA Pathfinder, con il quale testare la strumentazione e la fattibilità, in ultima analisi, della missione». Ed è proprio alla progettazione e realizzazione del Pathfinder che si sono dedicati i team dei due istituti zurighesi, UZH ed ETH (guidati, rispettivamente, da Jetzer e dal prof. Domenico Giardini), con la collaborazione di imprese elvetiche.
«Lanciato a dicembre 2015, il Pathfinder ha mostrato risultati oltre le aspettative e ciò, sommato ai risultati ottenuti dai rilevatori terrestri nello stesso periodo, ha mostrato come le onde gravitazionali potessero rappresentare la nuova frontiera della ricerca. Dal 2017, quindi, abbiamo lavorato sull'ottimizzazione della strumentazione e della scienza alla base del progetto». Fino ad arrivare, appunto, agli ultimi esami di fattibilità, terminati con il via libera nella già citata Mission adoption review. «Non un semplice passaggio di rito, ma un momento importantissimo frutto di trent'anni di studi e di un'infinità di analisi».
Nel corso del prossimo decennio, tempo necessario per arrivare al lancio di LISA, la Svizzera rimarrà un partner importante della missione: «Il nostro Paese, come già fatto per il Pathfinder, continuerà a occuparsi di parte dell'hardware, con ricadute sulle industrie svizzere. Ma non solo: vogliamo anche sfruttare al massimo i dati che LISA sarà in grado di fornirci. Per questo stiamo studiando la creazione di un centro svizzero di analisi dati».
Come funziona LISA
Composta da tre satelliti posizionati in un triangolo equilatero, a 2,5 milioni di chilometri l'uno dall'altro e a 50 milioni di chilometri dalla Terra, l'antenna LISA funziona grazie a raggi laser inviati fra i satelliti. «Questi – ci spiega Jetzer – raggiungono l'interno del satellite, per arrivare a un cubo in oro e platino (di circa 4,5 centimetri di lato) che è posizionato in una scatola sottovuoto e, quindi, in costante caduta libera. Mentre i satelliti orbitano attorno al Sole (vedi schema sopra, ndr), sensori e piccoli propulsori si occupano di regolare la posizione del satellite così da impedire ai cubi, in caduta libera, di venire accidentalmente a contatto con le pareti delle scatole nelle quali sono contenuti. Per registrare le onde gravitazionali, quindi, viene misurata la differenza di distanza fra i cubi, provocata, appunto, dal passaggio di una di queste onde». Questa composizione permette di schermare la strumentazione dal costante e inevitabile bombardamento di raggi cosmici e vento solare sul satellite. Bombardamento che, pur con spostamenti «impercettibili», comprometterebbe la precisione di LISA. «Questo processo – specifica il professore – è stato studiato nel Pathfinder grazie anche al lavoro teorico e tecnico eseguito in Svizzera dai nostri istituti e dall'industria».

Tutto questo per cosa?
D'accordo, LISA permetterà di registrare le onde gravitazionali emesse da oggetti celesti. Ma di che cosa stiamo parlando, concretamente? Per descriverlo, potremmo usare un paragone più vicino a noi. Immaginiamo di tirare un sasso in uno stagno. Dal punto dell'impatto, si propagheranno onde concentriche. Ecco, similmente, nello spazio, alcuni corpi possono produrre perturbazioni nello spaziotempo che si diffondono come onde. «Il paragone è azzeccato», conferma Jetzer, «ma è bidimensionale. Le onde nello spaziotempo agiscono invece su quattro dimensioni (lunghezza, larghezza, profondità, tempo, ndr)». Seguendo questa metafora, LISA lavora come «una coppia di boe la cui distanza viene costantemente misurata. Se le increspature della superficie dello stagno – increspature generate dal lancio del sasso – passano tra le boe, la distanza tra di esse cambia. E così sappiamo che di lì è passata un'onda gravitazionale». Il funzionamento di LISA, ovviamente, è molto più complesso di così. E per essere sicuri di registrare solo le onde gravitazionali, deve essere fatto un difficile lavoro di analisi dati che escluda ogni altro tipo di "increspatura", altre modifiche nella distanza tra le "boe" che potrebbero trarre in inganno. In tal senso, ci spiega Jetzer, la presenza di tre satelliti aiuterà i ricercatori a triangolare i dati «processando ed eliminando i segnali spuri».
Misurate, come evidenziato a inizio articolo, in Hertz, le frequenze di un'onda gravitazionale forniscono indizi sul fenomeno che l'ha generata. Su che tipo di "sasso" ha colpito lo stagno. «I rilevatori sulla Terra sono sensibili alle frequenze tra 10 e 1.000 Hz. Ciò ha permesso, nel 2015, di registrare l'energia emessa, sotto forma di onde gravitazionali, da due buchi neri (binary black hole, ndr) – ciascuno di una trentina di masse solari – che, ruotando uno attorno all'altro, si sono fusi in uno solo (processo di coalescenza, ndr)». Un po' come nel caso dello stagno, «l'ampiezza dell'onda gravitazionale diminuisce sulla distanza, eppure l'energia sprigionata da questo fenomeno è talmente grande da provocare onde in grado di raggiungerci».
I rilevatori sulla Terra, spiega Jetzer, sono abbastanza sensibili da registrare il momento della collisione e fusione, «l'ultimo secondo». Il tutto, ovviamente, non in tempo reale. Spieghiamo perché: proprio come un telescopio, LISA ci fornisce informazioni sul passato. Ne avevamo parlato, un paio d'anni fa, al momento del lancio del James Webb (JWST): più è distante l’oggetto che l'ha emessa, più tempo ci mette la luce a raggiungere i nostri occhi. I fotoni che la compongono, dunque, funzionano per certi versi come piccole macchine del tempo: ci forniscono informazioni su com'era un oggetto al momento in cui sono partiti da quel corpo. Possiamo fare un esempio con il Sole: la luce ci mette otto minuti e venti secondi per viaggiare dalla nostra stella alla Terra. Per questo, quando raggiunge i nostri occhi, ci fornisce un’immagine del Sole non equivalente a com’è in quel momento, ma a come lo era otto minuti e venti secondi prima. Con lo stesso principio, il potentissimo James Webb, allora, è in grado di captare le radiazioni infrarosse emesse dai primi corpi celesti – ancora in viaggio verso la Terra – facendoci avvicinare come non mai al celebre Big Bang, quasi 14 miliardi d'anni fa. Ma, per quanto potente, nemmeno il JWST (né un suo eventuale, futuro successore che sfrutta la stessa tecnologia) potrà mai scendere sotto la soglia dei 300 mila anni dalla nascita dell'Universo. E per un semplice motivo: i fotoni emessi in questa prima fase sono rimasti intrappolati fra gli abbondanti elettroni che costituivano, allora, l'Universo primordiale, impossibilitati a viaggiare verso di noi. Insomma, i primi 300 mila anni rappresentano, per noi, un vero punto cieco.
E allora perché non affidarci a un senso diverso dalla vista? LISA punta proprio a questo. La velocità delle onde gravitazionali, equivalente a quella della luce, permette di fare registrazioni su eventi passati, esattamente come con un telescopio, ma senza il problema dei fotoni. Jetzer ci spiega: «La sensibilità di LISA, maggiore rispetto ai rilevatori terrestri, ci permetterà di osservare fenomeni che producono onde gravitazionali a frequenze minori, come la fusione dei buchi neri supermassicci (massa milioni o miliardi di volte quella del nostro Sole, ndr) che stanno al centro di ogni galassia». Poco dopo il Big Bang, specifica l'esperto, «le galassie erano molto più vicine l'una all'altra, tanto che – si stima – le collisioni dovevano essere tantissime. La maggiore potenza di LISA ci permetterà, in più, di andare oltre "l'ultimo secondo" dei rilevatori terrestri e, anzi, registrare le onde generate dall'evento anche un mese prima della collisione. Tutto ciò ci permetterà di raccogliere molte informazioni in più sui buchi neri supermassicci».
Ma non è, questo, l'unico obiettivo di LISA. «Ci permetterà anche di osservare oggetti che si trovano nella nostra galassia. Un esempio? I sistemi binari di nane bianche, che emettono onde gravitazionali nella stessa banda captabile da LISA. Questi fungeranno da sistemi di verifica perché, grazie alle osservazioni astronomiche, sappiamo già localizzare almeno una decina di questi sistemi binari nella nostra galassia. LISA dovrà saperli identificare, altrimenti sapremo che qualcosa non funziona».
Il sogno? «Non sappiamo ancora, con certezza, quale sia la loro frequenza, ma sarebbe fantastico poter captare le onde gravitazionali primordiali, le perturbazioni dello spaziotempo generate dal Big Bang stesso. Se LISA riuscisse a vederle potremmo avere informazioni sui primissimi istanti di vita del nostro Universo».

Umanità
Ma che cosa vuol dire seguire un progetto per 30 anni, sino a vederlo spiccare il volo? «Mi reputo molto fortunato. Ho potuto prender parte a momenti topici come la scoperta delle onde gravitazionali, il lancio del Pathfinder e, ora, l'adozione della missione LISA. Dal punto di vista umano è stato molto bello partecipare a un progetto che mi ha portato a entrare in comitati scientifici dell'ESA e a conoscere così altri ricercatori e personalità di rilievo in questo campo».
In questi anni passati a pensare LISA, Jetzer ha notato una trasformazione nella comunità scientifica: «Abbiamo sempre lavorato all'interno della teoria della relatività di Einstein, teoria che aveva già avuto molte verifiche, ma all'inizio erano in pochi a credere nella possibilità di sviluppare un simile strumento». Ora invece, spiega, sempre più istituti vogliono investire nel campo delle onde gravitazionali. «È una bella soddisfazione aver lavorato a una ricerca che ha futuro». E, da professore, è proprio al futuro che guarda Philippe Jetzer, con l'obiettivo di preparare una nuova generazione di fisici a raccogliere il testimone: «Ciò che stiamo facendo avrà ripercussioni sui prossimi decenni. Vedo da parte degli studenti un enorme entusiasmo, quasi giornalmente ricevo domande per un dottorato. La sensazione è quella di essere in un settore di punta della fisica».