L'intervista

Matthew Hibberd: «Non è questo il momento per abbassare il canone»

L'iniziativa «200 franchi bastano» e la volontà del Consiglio federale di portare l'imposta da 335 a 300 franchi entro il 2029, il confronto con gli altri Paesi europei e il rapporto fra media e democrazia: la parola al professore dell'USI
© CdT/Chiara Zocchetti
Marcello Pelizzari
10.11.2023 19:30

Il canone radiotelevisivo deve diminuire. Parole e musica (certo non leggera) di Albert Rösti. Lunedì, il consigliere federale ha presentato la proposta del Governo per ridurre la tassa da 335 a 300 franchi all’anno. Entro il 2029. Una mossa che avrà inevitabili ripercussioni sul budget della SSR, la Società svizzera di radiotelevisione, e di riflesso sugli impieghi. Una mossa, ha tuttavia specificato l’esponente dell’UDC, che intende contrastare l’iniziativa popolare «200 franchi bastano», consegnata lo scorso agosto e corredata da oltre 126 mila firme valide. Un’iniziativa drastica. Che i promotori al momento sono decisi a mantenere, con l’obiettivo di andare al voto. Secondo le stime del Consiglio federale, l’appuntamento alle urne è previsto nel 2026.

Fatte le dovute premesse, come interpretare l’attuale clima attorno al servizio pubblico? Di nuovo: come sta, davvero, il canone? Non solo in Svizzera, ma anche nel resto dell’Europa. Per capirne di più ci siamo rivolti a Matthew Hibberd, professore di Media Management, Media Economics and Media and Cultural Industries presso l’Università della Svizzera italiana nonché fra i massimi esperti del cosiddetto Public Service Broadcasting.

L'era digitale

Primo punto: la decisione del Consiglio federale di voler abbassare il canone. Che cosa c’è dietro o, meglio, può essere vista come un compromesso accettabile? «Viviamo in un’era digitale» esordisce il nostro interlocutore. «Un’era caratterizzata dall’abbondanza di media, fornitori di notizie e contenuti in streaming. Le aziende che fanno servizio pubblico e le ragioni per cui la popolazione paga il canone potrebbero sembrare, dunque, meno importanti. Ma si tratta, a mio modesto parere, di un errore. In una democrazia forte e matura, i cittadini contano più che mai su una comunicazione politica di qualità. Una comunicazione che informi i cittadini sul processo democratico e sulle diverse opinioni. I media del servizio pubblico, a livello internazionale, sono la fonte più affidabile di notizie di alta qualità. Lo abbiamo visto durante la pandemia di COVID-19. Purtroppo, infatti, Internet ospita anche numerose fonti di disinformazione o di notizie errate, comunemente note come fake news. E il finanziamento del servizio pubblico a sostegno di notizie di qualità, in Svizzera come altrove, è la nostra migliore salvaguardia contro la diffusione di fake news. Ci sono, insomma, ragioni democratiche fondamentali per sostenere le aziende del servizio pubblico».

Venendo al caso singolo, quello elvetico, Hibberd individua altre ragioni: «Il sostegno alle quattro lingue e culture nazionali, ma anche alle particolarità cantonali e locali, nonché la fornitura di una base industriale fondamentale per la produzione audiovisiva».

A finanziare il servizio pubblico, attraverso lo Stato, è la gente comune. Tutti noi, quindi, abbiamo un investimento personale nei contenuti dei programmi e, giustamente, possiamo avanzare delle critiche
Matthew Hibberd, professore di Media Management, Media Economics and Media and Cultural Industries presso l’Università della Svizzera italiana

Il fastidio e la frustrazione

Gli iniziativisti, fra le altre cose, non hanno mai nascosto un certo fastidio e una certa frustrazione. Per farla breve: alcuni ritengono che la SSR abbia orientamenti politici piuttosto evidenti, e che questi orientamenti tendano a sinistra. Sono sentimenti, questi, presenti anche fra il pubblico? Sempre Hibberd: «A finanziare il servizio pubblico, attraverso lo Stato, è la gente comune. Tutti noi, quindi, abbiamo un investimento personale nei contenuti dei programmi e, giustamente, possiamo avanzare delle critiche. Su alcuni temi politici e sociali sensibili, inoltre, l’opinione pubblica tende spesso a polarizzarsi. Rendendo più complicato il compito dei media nel rappresentare i diversi lati di questi temi. Mantenendo, al tempo stesso, equilibrio e distanza. Nel complesso, tuttavia, ritengo che i media del servizio pubblico facciano un ottimo lavoro nel bilanciare le opinioni controverse e opposte. Il fatto che giungano critiche dalla destra, ma anche dalla sinistra, potrebbe significare che le redazioni svolgono davvero un buon lavoro».

A proposito di pubblico, l’abbassamento del canone sarebbe giustificato dalla frammentazione dell’audience. Con gli spettatori della televisione generalista o classica in calo, riassumendo, non è corretto richiedere una cifra così alta all’utenza. Che ne pensa il professore? «È una domanda molto difficile e richiederebbe una risposta molto dettagliata per rappresentare appieno il dibattito» ribadisce Hibberd. «Ma, come ho già detto, attualmente viviamo in tempi pericolosi, in cui sono stati compiuti numerosi tentativi a livello internazionale per minare l’autorità democratica attraverso la diffusione della disinformazione o di cattiva informazione. I media di servizio pubblico, così come i media privati di qualità, le agenzie di stampa e i loro rappresentanti, hanno tutti un ruolo importante nella lotta a questo fenomeno. In breve, non credo sia questo il momento giusto per abbassare il canone e, di conseguenza, rendere più difficile il compito di difendere i valori e i processi democratici».

I paragoni con l'Europa

Detto della situazione elvetica, quanti e quali parallelismi si possono tracciare fra la nostra realtà e quella di altri Paesi europei? Pensiamo all’Italia, ma anche al Regno Unito dove l’esistenza stessa della BBC è costantemente minacciata. «I media di servizio pubblico – spiega il professore – sono stati sottoposti a pressioni politiche fin dall’inizio, nel caso della BBC addirittura dal 1922. Il canone della BBC è in pericolo, sono abbastanza vecchio da ricordare un importante rapporto alla BBC che raccomandava la possibile fine del canone nel 1986. A lungo termine, dunque, il canone nel Regno Unito potrebbe essere sostituito da altre forme di finanziamento. In RAI, la pubblicità è stata una fonte di reddito più importante del canone per diversi anni. Un’altra opzione potrebbe essere l’abbonamento volontario. Tuttavia, la questione richiede una seria riflessione da parte di tutti i Paesi, compresa la Svizzera».

E ancora: «Il futuro a lungo termine del canone è a rischio e le iniziative come ''No Billag'' e ''200 franchi bastano'' dimostrano abilmente il tentativo di minare il canone. Su questo punto ci sono pochi dubbi. La crescita dei canali digitali multimediali, dei social media, di Internet, dei servizi di streaming, ma anche la graduale dissipazione del pubblico e l’ascesa delle grandi piattaforme statunitensi e cinesi, da Meta a TikTok, hanno spinto molti a chiedere ai media del servizio pubblico di riformare, aggiornare e rafforzare le proprie piattaforme digitali e di adottare metodi di finanziamento alternativi». Fra cui, appunto, il varo di piattaforme fatte in casa come Play Suisse o Rai Play. «I media del servizio pubblico si stanno muovendo in questo senso, ma devono affrontare una lotta in tutta Europa con concorrenti nettamente più grandi e dotati di maggiori risorse, come Netflix, Apple TV, Disney. La possibilità che il canone, in Svizzera come altrove, diventi una sorta di sottoscrizione o abbonamento su base volontaria è concreta. Ma il problema dell’abbonamento come modello finanziario è che esclude tutti coloro che, ad esempio, non possono permettersi di pagare il servizio. Alcuni servizi devono essere mantenuti universali, come un’ampia gamma di informazione e altre forme di programmazione, altrimenti si creano forti disuguaglianze nell’accesso. E non sarebbe un bene per il processo democratico. Le democrazie si basano su comunità ben informate che condividono valori di base come i diritti e le responsabilità fondamentali. I media del servizio pubblico sono un’istituzione chiave, un’istituzione che ci informa e ci educa su tali diritti e responsabilità».

Le democrazie esistevano prima dei media di servizio pubblico. Ma allora la partecipazione politica avveniva faccia a faccia, con incontri nei Municipi, con l’iscrizione ai partiti politici e con altre forme di attività politica. Oggi, la maggior parte di noi si informa tramite i media

Il rapporto fra media e democrazia

Ecco, concludendo: qual è il rapporto fra un servizio radiotelevisivo forte e la democrazia? Una prima risposta, in fondo, l’avevano data gli Stati Uniti nel 2021, con l’assalto al Congresso. In America, per ragioni storiche e culturali, il servizio pubblico è pressoché assente. «Le democrazie esistevano prima dei media di servizio pubblico» chiosa Hibberd. «Ma allora la partecipazione politica avveniva faccia a faccia, con incontri nei Municipi, con l’iscrizione ai partiti politici e con altre forme di attività politica. Oggi, non lo facciamo più. La maggior parte di noi non appartiene a partiti politici, non si informa attraverso incontri pubblici. Anche se l’attivismo è vivo e vegeto, ad esempio per quanto riguarda i cambiamenti climatici, la maggior parte di noi riceve informazioni attraverso i media. L’attendibilità delle informazioni è quindi fondamentale per una democrazia ben gestita. Non è stato così negli Stati Uniti, dove persino i fornitori di notizie mainstream, come Fox News, hanno ingannato il pubblico negli ultimi anni».

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