La storia

«Abbiamo ospitato una famiglia ucraina, ecco come è andata»

Molti ticinesi hanno aperto le loro case per ospitare chi è scappato dalla guerra – Tra loro anche una coppia che abbiamo intervistato
Prisca Dindo
21.07.2022 15:30

L’invasione russa dell’Ucraina iniziata a fine febbraio ha fatto scattare in Ticino una gara di solidarietà. Nei primi giorni del conflitto c’era chi portava cibo e vestiti caldi nei centri di raccolta, chi si offriva di condurre i camion colmi di beni di prima necessità diretti al confine. E poi c’è stato chi, come la coppia da noi intervistata, che preferisce rimanere nell’anonimato, ha offerto un tetto a una famiglia ucraina in fuga. Una convivenza, quella che vi raccontiamo, interrotta dopo alcune settimane soltanto. A parlare è il marito.

Perché accogliere?

«Lo scoppio della guerra in Ucraina ci aveva colpito molto. La nostra è una famiglia che discende da rifugiati della Grande Guerra, perciò ci sembrava giusto offrire il nostro aiuto aprendo le porte di casa nostra. “Ora tocca a noi dare una mano a chi è in difficoltà” ci siamo detti mia moglie e io. Così è arrivata una famiglia di Kiev composta da nonna, mamma e bimbo piccolo. Sono arrivati l’8 marzo scorso. Avevano fatto tre giorni di viaggio in auto per arrivare nel nostro Paese ed erano stremati. La prima settimana avevano il morale a terra. La mamma piangeva molto. Suo marito e i suoi fratelli erano rimasti in Ucraina, a combattere sul fronte. Le loro erano storie di guerra e noi cercavamo di dar loro un po’ di conforto. Erano molto riconoscenti e ci ringraziavano di tutto».

Quando abbiamo deciso di offrir loro un tetto, ci siamo subito resi conto di un problema: i nostri figli sono ormai grandi e la nostra casa non era più attrezzata per un bimbo di due anni e mezzo

La solidarietà nella solidarietà

«Quando abbiamo deciso di offrir loro un tetto, ci siamo subito resi conto di un problema: i nostri figli sono ormai grandi e la nostra casa non era più attrezzata per un bimbo di due anni e mezzo. Mancava tutto. Abbiamo così chiesto aiuto alla comunità social. Nel giro di poche ore la cameretta era pronta. I ticinesi avevano risposto al nostro appello e ci avevano consegnato di persona una quantità sorprendente di oggetti: il lettino con le sbarre, il seggiolone, i giochi, il fasciatoio. La stessa cosa è successa con i telefonini. Alla famiglia ucraina ne serviva uno per caricare le carte sim ricevute gratuitamente dalla Confederazione, ne sono arrivati sei. Una cosa incredibile. A un certo punto abbiamo dovuto bloccare le donazioni perché non riuscivamo più a muoverci in casa. Tutto funzionava abbastanza bene fino a quando non sono aumentate le esigenze dei nostri ospiti».

La comunicazione difficile

«A rendere le cose difficili è stata sicuramente la comunicazione. Loro parlavano russo e ucraino, noi no. Perciò, ogni volta che dovevamo comunicarci qualcosa, utilizzavamo un traduttore simultaneo. Per le frasi semplici l’applicazione era perfetta. Ma, quando si trattava di spiegare come funziona la nostra Confederazione, la musica cambiava. Tra competenze federali, cantonali e comunali c’era da perdere la testa. I nostri ospiti avevano bisogno di capire cosa potevano fare nel nostro Paese e noi facevamo una fatica immane. Non riuscire a spiegare bene i meccanismi della nostra democrazia era frustrante. E ciò non solo a causa della lingua, ma pure per la burocrazia, che era davvero complicata. Anche la Svizzera è stata colta in contropiede dall’arrivo in massa dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. Nelle prime settimane giungevano da Berna informazioni contrastanti e ciò non aiutava a far chiarezza nella mente dei nostri ospiti. Si sentivano smarriti».

Ogni mattina c’era un nuovo cavillo burocratico da risolvere. Loro esternavano il problema e noi dovevamo trovare una risposta. Ho passato settimane e settimane di fronte al computer. Il piacere cominciava a trasformarsi in un dovere

Richieste infinite

«Con l’arrivo del permesso S, sono aumentate le richieste. Noi dovevamo trovare tutte le indicazioni necessarie. Registrazione a Chiasso, foto biometrica a Bellinzona, iscrizione per l’assegno mensile a Giubiasco. Eravamo sempre in ballo. Il nostro sistema è complicato. Ogni mattina c’era un nuovo cavillo burocratico da risolvere. Loro esternavano un problema e noi dovevamo trovare una risposta. Ho passato settimane e settimane di fronte al computer. Il piacere cominciava a trasformarsi in un dovere. Io avrei preferito passare le ore in loro compagnia, cucinando un risotto oppure cogliendo insalata nel nostro orticello. Alla fine, abbiamo pensato di non essere più la famiglia giusta per loro. Decidendo quindi di interrompere l’esperienza, durata sette settimane. Noi non riuscivamo più a soddisfare tutti i loro desiderata. I nervi erano a fior di pelle. Non abbiamo avuto problemi personali. Era una famiglia perbene. Abbiamo solo capito che con il passare del tempo le loro richieste, a giusta ragione, sarebbero aumentate. Ma io e mia moglie saremmo scoppiati».

«Imimimmi»

«Abbiamo anche creato un acronimo per riassumere l’esperienza. Imimimmi: interessante, molto istruttiva, molto intensa, e molto, molto impegnativa. La rifaremo? Non saprei».

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