Ticino

Delitto di Aurigeno: «Volevo farlo desistere dagli insulti e dalle minacce con cui mi bersagliava da mesi»

L’uomo a processo per aver ammazzato con tre colpi di pistola il custode del centro scolastico della Bassa Vallemaggia tenta di giustificarsi dicendosi travolto dalla separazione
© CdT/ Chiara Zocchetti
Spartaco De Bernardi
12.05.2025 20:09

Tre colpi di pistola esplosi dalla media distanza: il primo mentre la vittima si trovava nel cortile esterno della scuola: il secondo quando aveva tentato di rifugiarsi all’interno dell’edificio; il terzo nel corridoio della palestra. Tutti e tre i proiettili sono andati a segno colpendo l’allora 41.enne alla schiena e nella zona delle spalle. Senza lasciargli scampo. «Ero convinto di andare lì solo per fargli del male, non per ucciderlo. Volevo farlo smettere di vessarmi con insulti e minacce. Non ce la facevo. Ero andato totalmente in tilt. Ripeto, non lo volevo ammazzare ma solo colpirlo alle gambe». Incalzato dalle domande del giudice Amos Pagnamenta, presidente della Corte delle Assise criminali, il 44.enne del Locarnese alla sbarra per rispondere del reato di assassinio, subordinatamente omicidio - questi i due principali capi d’imputazione contenuti nell’atto d’accusa allestito dai procuratori pubblici Roberto Ruggeri e Pablo Fäh- non nega di aver ammazzato con tre colpi di pistola l’allora custode del Centro scolastico della Bassa Vallemaggia ai Ronchini di Aurigeno, suo rivale in amore. Ma la spedizione punitiva compiuta l’11 maggio del 2023, questa la sua linea difensiva, non aveva finalità omicide. Il 44.enne voleva solo dare una lezione all’uomo che si era legato sentimentalmente a sua moglie e che non la smetteva di rendergli la vita impossibile. «Dopo 11 mesi di insulti e minacce da parte della mia ex moglie e del suo nuovo convivente non ce la facevo più», ha ribadito più volte il 44.enne difeso dall’avvocato Fabio Bacchetta Cattori. «Volevo solo fargli del male colpendolo alle ginocchia», ha proseguito l’imputato il quale aveva scoperto del tradimento di sua moglie nel giugno del 2022. «Se ne era andata di casa e da allora la mia vita è precipitata. Non riuscivo più a lavorare e l’unica mia preoccupazione era quella di riuscire a instaurare di nuovo un dialogo con mia moglie e con le mie figlie». In risposta, ha però spiegato il 44.enne, riceveva porte in faccia e male parole. «Volevo ripartire e riprendermi la vita in mano. Solo questo».

Il culmine di mille angherie

Quanto accaduto poco dopo le 13.30 di quel funesto giovedì è stato il tragico epilogo di 11 mesi cariche di tensione tra l’imputato (sul banco insieme a lui anche il 33.enne che gli vendette l’arma e la donna che fece da tramite tra i due), sua moglie (con la quale era in corso una causa di separazione) ed il custode del Centro scolastico. Un periodo contraddistinto da insulti e minacce reciproche, che aveva anche indotto il 44.enne a fabbricare delle bottiglie molotov che aveva lasciato vicino all’abitazione della moglie. «Volevo usarle per immolarmi davanti a lei», ha tentato di giustificarsi l’uomo per l’atto che secondo la pubblica accusa altro non era che un tentativo di intimidire la donna ed il suo nuovo compagno. Innumerevoli, poi, i messaggi minacciosi pubblicati sui social e anche spediti via mail. «Sei già un morto che cammina», una delle tante minacce rivolte al suo rivale in amore. «Speravo che qualcuno intervenisse e che lo facesse smettere. Che mi lasciasse in pace. Che mi consentisse di riallacciare il dialogo con mia moglie», ha tentato di giustificarsi il 44.enne. Una via completamente sbagliata, gli ha fatto notare il presidente della Corte, tanto che quelli che lui definisce tentativi di riconciliazione non hanno sortito nulla di buono. Anzi, hanno esacerbato ulteriormente la situazione. Fino a quel tragico 11 maggio 2023.

L’attesa e gli spari

Già la mattina era iniziata male: convocato dall’assicuratore, il 44.enne si era sentito dire che non avrebbe più ottenuto le indennità giornaliere per malattia siccome aveva continuato a lavorare nel suo negozio di apparecchi informatici. La classica goccia che fa traboccare il vaso. Furibondo si reca una prima volta ad Aurigeno, ma non raggiunge il Centro scolastico. Ritorna a Locarno, va nel suo negozio e recupera la pistola che si era nel frattempo procurato e riparte in direzione dei Ronchini. Parcheggia nei pressi dell’edificio scolastico, ma non va subito alla ricerca del suo rivale. Rimane in zona quasi un’ora e mezza e poi si sposta verso il piazzale delle scuole. Lì vede il custode che è in compagnia del figlio. Quando il ragazzo si allontana, raggiunge correndo l’allora 41.enne. Questi, non appena lo vede, fugge in direzione di una delle entrate dell’edificio. Ma viene raggiunto alla schiena dal primo colpo di pistola. Poi, come detto, viene colpito altre due volte. «Non sapevo dove sparavo. Stavo correndo e non riuscivo a prendere la mira. Mi sono accorto di averlo colpito solo dopo il terzo sparo», ha spiegato l’imputato. L’uomo poi risale in macchina e, dopo aver contattato un poliziotto suo conoscente, si consegna alle forze dell’ordine a Losone. Ripercorsa la dinamica dei fatti, il dibattimento si è concentrato sulla pistola impugnata dal 44.enne.

Quell’arma passata di mano

Una pistola passata da più mani. Rubata in un’abitazione del Locarnese era finita nell’appartamento del 33.enne di origini kosovare accusato di averla poi venduta al «killer» di Aurigeno. «Non sapevo per cosa gli servisse», ha ribadito quest’ultimo che, difeso dall’avvocato Gianluigi Della Santa, deve rispondere del reato di complicità in assassinio, oltre che di quelli legati al famoso caso dei permessi facili (vedi box). A metterlo in contatto con lo sparatore era stata una sua connazionale, che lavorava quale impiegata nel negozio del 44.enne. La donna, patrocinata dall’avvocato Matteo Poretti e accusata pure lei di complicità in assassinio, nega però tutto.

Domani mattina la parola passa ai due rappresentanti dell’accusa per le requisitorie.

Oltre a quello di complicità in assassinio (subordinatamente omicidio) per dolo eventuale, il 33.enne di origini kosovare deve rispondere anche di una serie di reati tra i quali anche quelli legati alla vicenda dei «permessi facili» emersa nel 2017 e risalente al biennio precedente. Con la connivenza di un funzionario dell’amministrazione cantonale, l’uomo era riuscito a far rilasciare dei permessi di soggiorno per una quindicina di suoi connazionali presentando dei documenti di identità falsificati ed ottenendo in cambio un compenso di alcune migliaia di franchi. Reati che il 33.enne ha ammesso. Respinti invece al mittente gli addebiti mossi nei suoi confronti, tra l’altro, di furto e di minacce verso sua moglie.
In questo articolo:
Correlati