I dubbi del vescovo emerito: «Tempi e modi non convincono»
«I tempi, i modi, le motivazioni. Tutto, in questa vicenda, non mi convince. Il problema l’avevo posto anch’io, nel settembre 2011. Nessuno, però, ci è mai tornato sopra. Se fosse stato così urgente, così importante, sarebbe andata diversamente. Abbiamo avuto 12 anni per discuterlo, per fare i giusti passi. Niente. E proprio adesso salta fuori all’improvviso l’urgenza di cambiare?».
Il vescovo emerito di Lugano, monsignor Pier Giacomo Grampa, è seduto nel salottino del suo studio-abitazione alla Fondazione Sant’Angelo, a Castel San Pietro. È circondato dai libri e dalle carte, «una minima parte - dice sorridendo - di quanto ho lasciato in curia», e in mano tiene una copia della sua ultima Lettera pastorale alla Diocesi di Lugano, Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. «Ascolti che cosa scrivevo nel capitolo 8: “La norma del ressortissant tessinois, legata al momento in cui la diocesi di Lugano è nata, è stata sentita subito come troppo restrittiva. Ma intanto è ancora valida e da rispettare. Si voleva infatti garantire non tanto la diocesanità del candidato, quanto la sua “ticinesità” nel contesto svizzero».
L’argomento in discussione è la petizione lanciata per modificare la convenzione del 1968 con cui la Confederazione e la Santa Sede si accordarono affinché il vescovo di Lugano fosse nominato dal Papa tra i preti ticinesi: «È per rispettare il federalismo che c’è quella norma - spiega monsignor Grampa - è stato deciso così per dare riconoscimento alla terza cultura del Paese, anche in campo ecclesiastico. Altre diocesi della Svizzera interna hanno un loro regolamento particolare: a Basilea il vescovo lo eleggono i 18 canonici, a Coira abbiamo visto addirittura respingere la terna del Papa. Si può cambiare? Ma certo che si può. Si deve cambiare? Ecco, su questo dico: dipende dai modi, dai tempi e dalle ragioni che si adducono. Io sono rimasto perplesso quando ho letto la petizione. E pur riconoscendo agli iniziativisti ogni buona intenzione, non condivido il loro entusiasmo per le 2.200 firme raccolte. Perché vuol dire che ci sono almeno altri 200 mila ticinesi che non hanno firmato».
Don Mino, come tutti chiamano il vescovo emerito di Lugano, sembra tornato ai tempi del rettorato di Ascona, quando distribuiva saggi consigli e bonari rimproveri agli allievi del Papio. Ha in mano la matita blu per sottolineare gli errori, ma si sforza anche di capire il senso di una proposta che pure non condivide.
«Una delle ragioni che vengono esposte dai promotori per rivedere la convenzione del 1968 è il numero sempre minore dei preti ticinesi, la crisi delle vocazioni. Ma tra i 152 sacerdoti secolari e regolari attivi, ce n’è almeno un centinaio tra i quali scegliere il futuro vescovo. Non siamo di fronte a una Chiesa asfittica. Negli Atti degli Apostoli si racconta che quando si è trattato di sostituire Giuda fu stabilita dagli stessi apostoli un’unica condizione: che la persona da scegliere credesse nel Risorto e “fosse stato con noi dall’inizio”. È qui che bisogna cogliere il valore di quella formula, ressortissant tessinois. Ma perché dobbiamo prendere un prete che viene da Francoforte o da Palermo? Non siamo ancora terra di missione. Certo, siamo terra che si secolarizza, ma è un problema che riguarda tutte le diocesi del mondo occidentale, americano ed europeo. Francesco, giustamente, dice che il vescovo deve avere l’odore delle pecore: se tiriamo su il vescovo da Palermo o lo tiriamo giù da Francoforte, pur con tutto il rispetto, è più difficile che colga questo odore anche perché le pecore del Ticino, e non solo queste, ne hanno uno particolare». Ma è nel merito che monsignor Grampa contesta la petizione. «Chiedere adesso una revisione, durante la sede vacante, è un errore. Tutte le strutture diocesane sono sospese: il consiglio dei consultori e il consiglio dei vicari foranei hanno altre funzioni, e non si possono riunire il consiglio presbiterale e il consiglio pastorale. Non si può quindi coinvolgere la diocesi in questo discorso così come si dovrebbe. Siamo in un tempo di Chiesa sinodale, e sinodo significa fare il cammino assieme. Il Papa dice sempre “ascoltate la gente”, ma non mi sembra che stia succedendo. Nella Chiesa primitiva si pregava per fare il vescovo, qui invece si chiacchiera. Di fronte a un problema tanto importante bisognava coinvolgere tutti, bisognava far maturare il popolo cristiano cattolico del Ticino e fargli capire che non possiamo andare avanti con questa strettoia, di cui io parlavo già nel 2011 in vista della mia successione. E invece abbiamo dato pure il fianco alla polemica politica».
Fa fatica, don Mino, ad accettare che una questione nobile e importante come la scelta di un ressortissant tessinois si traduca in una disputa «da “prima i nostri”. Cosicché - dice - nel clima del Ticino attuale tutto si riduce a “Vescovo e buoi dei paesi tuoi”. Ma non è questa la ragione per cui il vescovo dev’essere scelto tra i sacerdoti ticinesi. Stiamo passando da un’epoca di cambiamenti a un cambiamento d’epoca, chi è chiamato a governare la diocesi di Lugano deve conoscerla, deve avere una linea precisa, dev’essere un uomo di organizzazione e di piano pastorale. Non si cambia la regola mentre si gioca la partita, mentre le consultazioni sono già in corso. In questo modo si dà l’impressione di volere soltanto bloccare alcune candidature o favorirne un’altra».
E a proposito di nomi, quelli di monsignor Grampa, che è già stato consultato dal nunzio apostolico, l’arcivescovo tedesco Martin Krebs, non li sapremo mai. «Non posso farli, perché sono tenuto al segreto pontificio. E poi non li direi comunque. Proprio oggi, a Messa, si è letto il Vangelo del fariseo e del pubblicano, il passo in cui il fariseo dice “io non sono come tutti gli altri uomini, io non rubo, non faccio latrocini, non faccio assassini, io io io”, mentre il pubblicano invoca il Signore “Dio, abbi pietà di me peccatore”. In giro è tanta la gente dell’io. In questo mi schiero con il pubblicano, che sta in fondo alla chiesa e si batte il petto, e osserva il fariseo che rimane lì davanti».