«Il dualismo città-campagna può avere risvolti pericolosi»
La protesta degli allevatori dopo l’uccisione in Val Rovana di numerose pecore da parte del lupo ha riacceso un dualismo che ha attraversato tutta la storia del nostro cantone: quello fra città e campagna, fra pianura e valle. Uno «scontro» non solo ticinese, bensì svizzero. Ne parliamo con Fabrizio Viscontini, storico leventinese.
La recente predazione del lupo ha nuovamente sollevato il malcontento degli allevatori di valle, che si sentono abbandonati dalle autorità. Un confronto, quello fra centro e periferia, che ha radici profonde in Ticino come in Svizzera. Può fornirci degli esempi storici di questo dualismo?
«Il dualismo fra centro e periferia è presente sia nella storia del nostro cantone, sia in quella svizzera. Se guardiamo all’epoca dell’antica Confederazione, prima della grossa divisione provocata dalla Riforma protestante, i contrasti si presentavano molto spesso fra città sovrane - murate e ricche - e campagne situate attorno a questi centri. Pensiamo alla vecchia guerra di Zurigo nella prima metà del 1400, che contrappose principalmente Svitto, un cantone di montagna, alla città murata per il possesso dei territori che si trovavano attorno al lago di Zurigo. Un paio di secoli più tardi - siamo nel 1653 - ritroviamo poi un altro evento significativo di questa contrapposizione: la grande guerra dei contadini svizzeri, che chiedevano maggiori diritti. Un conflitto che non riguardò un unico cantone sovrano, bensì Lucerna, Berna e successivamente anche Basilea e Soletta».
E in Ticino?
«In linea di principio, quella che potremmo definire modernità si irradia dalle città in direzione delle campagne. Non a caso, il grande storico francese Fernand Braudel diceva che le città sono i motori della storia. Nei centri si è sviluppato fin dall’antichità il commercio e l’artigianato. Le campagne, invece, sono per loro natura meno propense ai cambiamenti. In Ticino, forme di irradiamento della modernità dalla città alla campagna le ritroviamo in Leventina già nel Seicento, più precisamente fra il 1610 e il 1687, con il caso dei processi di stregoneria. La religione di tipo popolare, contadina, all’epoca ancora ben radicata nelle nostre valli, non poteva più essere tollerata dopo il Concilio di Trento. Ecco che allora il Landfogto di Uri, un cantone rurale ma con al centro Altdorf, cui spettava la sovranità della Leventina, diede vita ai processi tramite un Magnifico Ufficio».
Potremmo quindi definire quei processi come un chiaro tentativo di assoggettare le valli alla volontà delle città?
«Sì. Non è un caso che a partire dal 1602 il canton Uri cercò di imporre i propri statuti alla Leventina, provocando una reazione. L’idea di diffondere certe norme, anche di carattere religioso, seguiva dunque questa visione di centralizzazione amministrativa. E le valli erano di principio contrarie a questo processo di ‘‘civilizzazione’’ forzata».


Quale altro periodo storico evidenzia questa dicotomia?
«Citerei la Repubblica elvetica, fra il 1798 e il 1803. Un momento significativo, quello dell’invasione francese dell’antica Confederazione, perché la contrapposizione città-campagna visse un acceso scontro - in particolare nel Sottoceneri - fra Lugano, Mendrisio e le aree rurali tutt’attorno. Nei due centri, infatti, si era sviluppata un’economia di tipo capitalista, soprattutto grazie ai commerci e alla lavorazione della seta. Il benessere derivante da queste attività fece nascere un notabilato, che tendeva a investire denaro nelle campagne. Ma nel momento in cui i contadini non erano più in grado di restituire questi finanziamenti alle città, ai signori, ecco che le terre finivano nelle mani dei ricchi. Dando vita a proteste e malumori da parte della popolazione rurale, che sfociarono nell’assalto alla tipografia Agnelli di Lugano da parte dei vallerani, nell’aprile del 1799. Lì si pubblicavano testi di carattere illuminista e il saccheggio va dunque ricondotto a un sentimento contrario a questa ‘‘modernità’’ che accomunava i contadini».
Il motivo dello scontro era dunque puramente economico?
«Solo in parte. Era anche una questione politica, perché erano le città a dominare sulle campagne. Il notabilato, anche all’epoca dei 12 cantoni sovrani che avevano collaborato alle conquiste a sud delle Alpi, partecipava al governo balivale, che si trovava appunto nelle città. Gli investimenti dai centri verso le campagne mettevano in chiara difficoltà le antiche vicinie e il loro sistema di beni collettivi, che permetteva ai contadini di sopravvivere. Anche da qui nasce lo scontro».
Facciamo un balzo in avanti nel tempo, arrivando alla seconda metà dell’Ottocento e allo sviluppo delle vie di comunicazione sull’asse nord-sud, che coinvolse in particolare la Leventina.
«La valle si trovava in un periodo particolare, nato dall’apertura del tunnel ferroviario del San Gottardo nel 1882. Uno sviluppo che portò all’industrializzazione della Leventina grazie alla concessione delle acque della Biaschina alla Motor di Baden (1905), culminata mezzo secolo più tardi con la costruzione della Monteforno di Bodio. La Leventina, per la somma di questi fattori, entrò quindi a far parte di quell’area del Ticino economicamente sviluppata che tipicamente si trovava lungo l’asse ferroviario».


A proposito di vie di comunicazione: quanto hanno contribuito ad appiattire le differenze fra centro e periferia?
«Molto. Proprio sull’esempio di quanto avvenuto in Leventina, a cavallo fra Ottocento e Novecento il Gran Consiglio ticinese votò dei sussidi per la costruzione delle ferrovie regionali, come la Biasca-Acquarossa. L’idea era di replicare il successo dello sviluppo della Leventina grazie alle vie di comunicazione. Una parentesi importante nella storia del nostro cantone, e che è stata ben definita dal geografo Tazio Bottinelli come ‘‘Ticino ferroviario’’. Un periodo che è arrivato fino agli anni Settanta».
Poi che cosa è successo?
«Dagli anni Ottanta in poi, il Ticino si trasformò in un cantone composto da agglomerati urbani. Lugano, Locarno, Bellinzona, Mendrisio e Chiasso. È nelle aree urbane che, ancora una volta, si sviluppò l’economia ticinese. E gradualmente le valli, in particolare la Leventina, tornarono a essere periferia. A occupare quindi uno spazio minoritario sulla scena cantonale».
Un chiaro ritorno al dualismo città-campagna, quindi?
«Sì. Un dualismo ben visibile ancora oggi, in particolare dopo che la vecchia LIM (legge sugli investimenti nelle regioni di montagna) è stata sostituita con progetti di sviluppo delle regioni periferiche. Progetti che tuttavia devono partire dagli agglomerati urbani. Di conseguenza, ecco che la città è tornata a essere dominante rispetto al resto del territorio, svizzero e ticinese. Il concetto di Città Ticino, ad esempio, ha dei difetti proprio perché - se va bene - il cantone arriva fino a Biasca, anche solo dal punto di vista della frequenza dei trasporti pubblici. Riassumendo, questo tipo di dualismo è rinato con prepotenza, e se non si fa attenzione rischia di diventare pericoloso. Il mondo di oggi corre veloce, e il fossato fra chi sta bene e chi sta peggio si allarga in pochissimo tempo».
Ma centro e periferia, anche alla luce della recente protesta degli allevatori, riusciranno mai a parlarsi?
«Questo dualismo è radicato in Ticino anche perché l’utilizzazione del territorio è diversa. Chi abita negli agglomerati urbani si reca in valle per trascorrere il proprio tempo libero. Chi, invece, in valle ci abita, vive talvolta grazie al territorio. Gli allevatori, con l’arrivo del lupo, devono quindi affrontare un problema reale, e la recente protesta di Bellinzona - seppur macabra - è comprensibile. Non dimentichiamoci che l’uomo ha potuto vivere nell’arco alpino nella misura in cui ha avuto cura dell’ambiente. Non significa solamente proteggere i boschi, realizzare gli argini dei fiumi o costruire strade e ripari valangari. Significa anche contenere la presenza dei grandi predatori. Una presenza che mette in difficoltà chi pratica l’allevamento di pecore e capre nelle valli. Sul lupo si innesta ancora una volta una visione diversa del territorio ticinese. Da una parte quella di chi vive in città e vede nel lupo un animale da proteggere, dall’altra quella di chi vive grazie all’allevamento e paga le conseguenze della sua presenza».