«La mia famiglia ora è al sicuro, io torno a difendere Kiev»
Per alcuni di loro vedersi chiudere alle spalle la porta del Centro di registrazione d’asilo deve essere stato un sollievo enorme. «Siamo finalmente dentro», devono aver pensato. «E ora ci sarà qualcuno che si prenderà cura di noi». La fine di un lungo viaggio iniziato a Kiev, a Kharkiv o a Odessa e che li ha portati ad attraversare città probabilmente mai sentite nominare. Fetița in Moldavia, Bistrița in Romania, Zalakaros in Ungheria. E poi ancora Turnišče e Domžale in Slovenia o Quarto d’Altino in Italia. E alla fine Chiasso, in Svizzera. Proprio a Chiasso abbiamo passato alcune ore incontrando e parlando con alcuni dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina, intenti a registrare il loro arrivo nel nostro Paese. Per molti quel gesto – la registrazione, appunto – rappresentava una semplice formalità. Perché si trovavano in Svizzera da settimane (alcuni prima ancora dello scoppio della guerra), accolti da amici o parenti. Ma per altri, appunto, l’arrivo in Ticino ha rappresentato la conclusione di un’Odissea. «Perché ha scelto di venire in Svizzera? Come mai proprio la Svizzera?», abbiamo chiesto a un di loro, che chiameremo Andriy. «Perché è il posto più sicuro. Perché temo che Putin, se non si fermerà in Ucraina, punterà anche alla Moldavia e chissà, forse perfino alla Romania e alla Germania». Andriy è stanco e preoccupato, perché le notizie che arrivano dalla sua Odessa sono allarmanti. Si parla di un possibile attacco anfibio, con le navi russe già schierate. In caso di sconfitta l’Ucraina resterebbe senza sbocchi sul mare. «Mykolaiv, la città vicina, sta resistendo. Ma se cade la prossima sarà Odessa».
50
ore per arrivare al confine
Andriy
si allontana un attimo per rispondere al telefono e incontriamo una giovane
coppia. Lui è italiano, lei ucraina. Abitano a Ginevra ma hanno scelto il
Centro di registrazione di Chiasso. «Perché ci hanno detto che in Romandia la
fila è più lunga». E anche perché arrivano dall’Italia, dove sono andati a
prendere la madre di lei, in fuga da Kiev. «È rimasta fino a quando ha potuto,
ma poi ha deciso di scappare. Ci ha messo 50 ore, di cui 36 filate, per
arrivare al confine rumeno. Avesse tentato di passare dalla Polonia ci avrebbe
messo anche di più».
Un
alloggio provvisorio
Andriy
nel frattempo ha agganciato e torna da noi. «Scusate, era mia moglie» ci dice,
in un inglese un po’ stentato ma comprensibile, indicando una finestra del
Centro di registrazione. Lei è dentro con i loro tre figli. «Le hanno detto che
il Governo svizzero ci ha trovato una sistemazione per 2 o 3 giorni. Poi non ho
capito dove andremo». «Vi verrà trovata una soluzione più a lungo termine», lo
rassicuriamo. «Bene. In Ticino ero già stato e sono contento di essere in
Svizzera. Ci sono buone scuole e si possono imparare diverse lingue. Ai miei
figli farà bene». Ma Andriy non resterà. «Non posso», ci spiega. «La mia
famiglia ora è al sicuro e domani arriverà anche quella del mio migliore amico,
che è a Kiev a combattere. Gli ho promesso che avrei portato al sicuro anche
loro. Ma poi non potrò restare. Devo fare qualcosa per il mio Paese e tornerò a
difendere la capitale». Seguirà gli altri 180.000 ucraini che, come ha
confermato Ylva Johansson al Parlamento europeo, hanno deciso di lasciare
l’UE per tornare a combattere.
L’allarme
aereo
Andriy
torna a parlare della sua Odessa e di quella prima notte di guerra, quando
attorno alle cinque del mattino suonarono per la prima volta gli allarmi aerei.
«Non ci credevo. Non pensavo di certo che saremmo stati attaccati. Ho guardato
le news e ho visto che in tutto il mondo si parlava dell’invasione. Allora ho
scritto un messaggio a un amico che è nell’esercito, e mi ha risposto:
"Stavolta è grossa. Su larga scala". Il giorno dopo abbiamo deciso di
lasciare il paese. Mia moglie è andata al lavoro per avvertire che non si
sarebbe più presentata e siamo saliti in auto, accorgendoci di non avere
benzina. Abbiamo passato due ore incolonnati a un distributore: un po’ tutti
avevano avuto la nostra stessa idea». Ma alla fine Andriy e la sua famiglia ce
l’hanno fatta. «Poco tempo dopo aver attraversato il confine abbiamo saputo che
il Governo aveva deciso di non permettere agli uomini (tra i 18 e i 60 anni,
ndr) di lasciare l’Ucraina».
Ma
è solo l’inizio
Guardando i volti e le espressioni delle persone in
attesa di registrarsi al Centro di Chiasso stupisce la loro calma e la loro
tranquillità. E stupisce vedere i bambini - così tanti bambini - correre beati
e giocare attorno al piazzale. «Temo però che questo sia solo l’inizio», ci
avverte un operatore della Segreteria di Stato della migrazione. Perché,
appunto, molti di coloro che si sono presentati in questi giorni avevano già un
alloggio in Svizzera e avevano lasciato l’Ucraina nei primi giorni del
conflitto. Ma quelli che arriveranno dopo potrebbero aver vissuto esperienze
ancora più devastanti.