Salute mentale

La pandemia, la guerra e i fantasmi del nostro presente

Negli ultimi anni anche in Ticino è stato registrato un chiaro aumento di richieste di aiuto psicologico e di presa in carico, ne parliamo con Maria Chiara Ferrazzo
Paolo Galli
17.10.2022 06:00

Già la pandemia ci aveva messo a dura prova. Poi è arrivata la guerra. Paure, dubbi, incertezze. Stati emotivi indesiderati e incontrollabili, dolorosi. Ma per certi versi inevitabili. Non è scontato, tra tanti fantasmi, trovare la forza per ammettere di avere paura. Ancora meno scontato è riconoscere di avere bisogno di un aiuto per scacciarla, quella paura. Nel mondo fuori piovono bombe, bombe vere. E l’onda lunga del frastuono e della devastazione che provocano si scatena senza controllo e arriva sino a noi, sino a dentro di noi. «Ho paura». Sono in molti a dirlo, di questi tempi, almeno stando ai numeri delle richieste di aiuto o di presa in carico.

I pericoli all'improvviso

«Abbiamo effettivamente registrato un aumento», ci spiega Maria Chiara Ferrazzo, psicologa e psicoterapeuta, capo équipe all’OSC. «La pandemia prima e la guerra in Ucraina dopo, hanno generato a livello collettivo un sentimento di insicurezza e vulnerabilità emotiva». Naturalmente non si può troppo generalizzare, perché l’impatto emotivo può variare da persona a persona. È innegabile, tuttavia, stando alla dottoressa, che questi avvenimenti ci toccano tutti, ne siamo coinvolti da un punto di vista emotivo e ci hanno costretto ad affrontare un cambiamento nel modo di affrontare il futuro. «Un futuro che improvvisamente ci è apparso instabile e cosparso di pericoli». Di più: «Inoltre ci siamo confrontati in maniera diretta e indiretta con due temi esistenziali: la libertà e la morte. Due grandi preoccupazioni esistenziali che alimentano fantasmi e determinano l’agire dell’essere umano. Nella mia personale esperienza di pratica clinica nel setting con i pazienti, negli ultimi mesi, si evince una deviazione dei contenuti classici riportati. Sempre più spesso in questo periodo i pazienti mi chiedono di affrontare tematiche legate allo stress e al burn out causato da preoccupazioni generate a loro volta dalle conseguenze indirette della guerra - aumento dei costi, problemi finanziari -, ambiti di vita già messi a dura prova durante la pandemia. In questo ultimo periodo in seduta arrivano pazienti preoccupati per la perdita del loro lavoro, richieste da parte di giovani disorientati sulla propria persona e sul proprio sviluppo, ma anche genitori che portano difficoltà e vulnerabilità personali e in ambito famigliare».

Quando la paura si fa patologica

I sintomi sono facilmente intuibili, anche perché piuttosto comuni, anche solo osservando ognuno alla propria cerchia di conoscenze. «Sindromi post traumatiche, ansia generalizzata, disturbi del sonno, alterazioni del comportamento alimentare, somatizzazioni, depressione e disturbi dell’adattamento». Si tratta di un’impressione clinica, sottolinea la dottoressa Ferrazzo, che poi tocca proprio il concetto di «paura». Spiega: «Quando siamo confrontati con una situazione dove abbiamo la sensazione di non avere strategie sufficienti, ci sentiamo in pericolo e allora, fisiologicamente, sperimentiamo l’emozione che conosciamo con il nome di “paura”. La paura non è puramente un male, ma essere confrontati con una costante attivazione emotiva “paurosa” implica diversi effetti collaterali psico-fisici, noti comunemente con la paura stress, che spesso viene usata come equivalente. L’esposizione continuativa a fattori stressanti causa paura e se non siamo aiutati, rassicurati da qualcuno o qualcosa per noi significativo, siamo esposti a una limitazione del nostro funzionamento personale e interpersonale, causando una forma di disadattamento per le situazioni di vita». La paura in sé non è cattiva, ci permette anzi di fronteggiare la realtà, ma - aggiunge la dottoressa - «diventa patologica quando ci blocca e non ci permette più di sostenere la quotidianità». Sino alla paralisi, quella situazione in cui la persona si sente fragile e incapace di reagire in modo proporzionato agli eventi.

Di fronte a quello che ci appare difficile da risolvere, dobbiamo rispondere con il mantenimento di una comunicazione leale e spontanea, partendo dai nostri affetti, senza perderci

Una questione anche di eredità

Un oggi che è figlio del passato, recente come remoto. Recente: la pandemia. Remoto: i fantasmi risvegliati di un passato ereditato. «La pandemia ci ha destabilizzato e ha determinato una crisi di grande impatto economico, sociale ed emotivo. Avevamo forse bisogno di leggerezza per poter ripartire, invece ci siamo ritrovati a sperimentare di nuovo un senso di smarrimento». Di nuovo fragili. Sull’eredità emotiva, Maria Chiara Ferrazzo spiega: «La ricerca in ambito scientifico evidenzia una certa inter-generazionalità nella trasmissione di quei vissuti che consideriamo traumatici, ovvero non integrati a livello personale o famigliare. Persone esposte a traumatismi, soprattutto nel delicato periodo di sviluppo nella prima infanzia, in età adulta, quando diventano essi stessi genitori, possono involontariamente trasmettere alla generazione successiva uno stile relazionale insicuro che “ripete” certe dinamiche traumatiche e relazionali». A proposito di relazioni, «di fronte a quello che ci appare difficile da risolvere, dobbiamo rispondere con il mantenimento di una comunicazione leale e spontanea, partendo dai nostri affetti, senza perderci. Questo è il concetto della parola “resilienza” e potrà essere il modo in cui ripartire. Il disagio personale non deve essere stigmatizzato, ma attutito da una rete sociale e famigliare sensibile».

I limiti del sistema

Chiedere aiuto non deve essere un tabù. Neppure in termini di terapie e percorsi di salute mentale. Per non finire ad aver paura del proprio futuro. «La visione del futuro dipende non solo da aspetti oggettivi, ma anche da fattori costituzionali e personologici. Lorenzo de’ Medici scriveva “di doman non c’è certezza” e, a seconda delle nostre caratteristiche personali, possiamo vivere tale affermazione con estrema ansia o come opportunità. In terapia spesso si affrontano tematiche legate al passato con l’obiettivo di rinforzare la sicurezza interiore che permette alla persona di affrontare il proprio presente e il proprio futuro con maggior fiducia in se stessi». Una certezza c’è: le richieste aumentano, al punto che i professionisti risultano oberati. «Siamo confrontati con persone che si rivolgono ai nostri servizi OSC anche solo per brevi consulenze (1-3 colloqui) dove viene chiesto un parere orientativo: è importante continuare a garantire un accesso facile, e possibilmente il più veloce possibile in quanto questo permette di svolgere screening e diagnosi precoci, evitando cronicizzazioni di disagio che hanno poi successivamente evidenti conseguenze a livello anche socio-economico». Un sistema vicino al limite? «Come professionisti della salute mentale siamo spesso confrontati con storie al limite e siamo preparati a lavorare anche in situazioni di crisi e emergenza; non è facile indicare se il nostro sistema sia vicino al suo limite, ma personalmente credo, spero, che riusciremo a strutturare nuove strategie di fronteggiamento».

Un primo argine? I medici di famiglia

Anche i medici di famiglia si ritrovano confrontati a un numero chiaramente crescente di richieste di aiuto, o quantomeno di ascolto. Franco Denti, presidente dell’Ordine dei medici, lo riconosce. «Sì, sono richieste legate allo stato di incertezza in cui viviamo. Poi è anche vero che non tutte queste richieste necessitano di un sostegno ulteriore. Una delle prerogative dei medici di famiglia è proprio l’ascolto dei pazienti. A volte basta una visita, possono essere anche sintomi “stagionali”, e allora è sufficiente anche solo parlarne. In altri casi, notiamo quei sintomi che ci fanno pensare che occorre qualcosa di più specialistico. Ma non è un automatismo». Per parlare di certi temi, occorre però tempo, ma soprattutto empatia e fiducia: è possibile quando ci si riferisce a centri medici piuttosto che ai cosiddetti “medici di paese”? «È vero, quando non c’è un preciso riferimento diretto, già noto, la presa in carico può essere più complessa, ma un medico di famiglia deve comunque essere in grado di fornire un primo aiuto, anche in questi casi». Il dottor Denti poi ci pensa un attimo, e aggiunge: «È vero che si può fare di più nel quadro della formazione dei medici di famiglia. Stiamo diventando biomeccanici della medicina, ma ci vorrebbero maggiori competenze in ambito psicologico».
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