«La Valle Bavona raccontata da mio padre oggi è un territorio squarciato»

«Ma pure ascolta da che profondo respira la valle, e quanto piccoli, e fragili noi». Plinio Martini, la Val Bavona, l’ha descritta prendendola per mano, coccolandola e proteggendola come se fosse parte della famiglia. Lì, il compianto scrittore e insegnante, non è solo nato e cresciuto, ma vi è sempre rimasto legato in modo quasi viscerale. Tanto da volerne mettere nero su bianco i suoi cambiamenti, l’idillio pastorale, le difficoltà della vita alpina, l’emigrazione oltreoceano magnificamente raccontata ne «Il fondo del sacco».
Il suo capolavoro. Il marchio di fabbrica. Il verso citato all’inizio, però, è estratto dal componimento del «Diario forse d’amore», il secondo libro di poesie, dopo «Paese così», entrambi pubblicati negli anni Cinquanta. I romanzi erano ancora lontani, anche se forse già «vivevano» nella sua feconda mente.
L’amore, il troppo amore
«Cancellarti paese maledetto con un colpo di spugna: scatenarmi come tempesta gettarmi in un urlo di sangue di fiamma di maledizione toccando le vette gli abissi e poi svanire senza solco alcuno ma un attimo solo un attimo esser vissuto gigante». Amava talmente tanto il suo villaggio natio «di troppo buon senso», Cavergno, che questo profondo sentimento poteva addirittura trasformarsi in improperio. Per poi pentirsene, però, subito, tanto da confidarsi con un amico in via epistolare: «Non si maledice il proprio paese, quando lo si ama come io lo amo, per il solo vezzo di essere originale». L’affetto intenso, per quei luoghi, è stato tramandato da Plinio Martini ai figli. Come a Lorenzo, di professione architetto con studio a Lugano, che abbiamo interpellato perché era doveroso farlo di fronte ad una Vallemaggia sconquassata ed in memoria del padre, di cui l’anno scorso è stato celebrato il centenario dalla nascita.

«Lo choc è arrivato dopo»
«La Valle Bavona è ampia e sonora, e già il nome ricorda il fiume e le cascate che la colmano di un canto arioso e continuo. Il nero delle rocce e delle frane vi è così cupo e dominante, che il verde per contrasto acquista una dolcezza sconosciuta altrove. Appena il sole lo sfiora, anche il dirupo più selvaggio si illumina per incanto di ricami di betulle, di ciocche splendenti di primole rosse, di sassifraghe pendule nel vuoto» (da «Nessuno ha pregato per noi»). Dove si trovava sabato scorso, la notte maledetta, chiediamo al nostro interlocutore? «Ero a Foroglio, nella mia casa di vacanza. Io e quei pochi che erano lì siamo poi stati evacuati in elicottero e portati alle scuole ai Ronchini ad Aurigeno. Guardavo il disastro. Lo choc è arrivato dopo, quando ho preso pienamente coscienza di quello che era successo». Ai valmaggesi, per citare suo padre, che «il nostro paese fosse bello ce l’hanno detto gli altri, venuti qui in vacanza, e di solito rispondevamo che ‘‘dal bello non si mangia via niente’’».
Il Gesummaria scolpito
Fontana, dove è scesa la frana, non esiste praticamente più. Seppellita dai massi. Quanto fa male? «Non è la prima volta che cade una frana. Era già capitato nel 1594, tra Fontana e Sabbione, come recita l’iscrizione riportata su una pietra («Giesu Maria qui fu bela campagnia», proprio scritto così, n.d.r.). Mio padre ne parla ne ‘Il fondo del sacco’. Stavolta massi e detriti sono scesi a sinistra della frazione, allora arrivarono dall’altra parte. Fa specie anche questo fatto. A Fontana, chi ci va, lo fa per trascorrere le ferie estive. Le stalle sono state trasformate in rustici. Sono 2-3 gli abitanti che ci vivono tutto l’anno. Ricordo anche gli scoscendimenti a Roseto e Faedo, nell’agosto 1992».
Certo, riguardo a quello che sembra un epitaffio, nel romanzo pubblicato nel 1970 Plinio Martini sottolinea che «sono soltanto disgrazie le poche notizie di cui ci hanno lasciato memoria i nostri vecchi, come a Fontana, dove su un masso di frana trovi scolpito un Gesummaria da non sapere se sia preghiera o imprecazione, e che lì ci fu una bella campagna; quella volta ai nostri vecchi non rimase il fiato di dire altro».

«Quando piove si scappa»
Dall’alba di domenica 30 giugno è addirittura peggio. Forse. Un altro scrittore, il triestino Paolo Rumiz, folgorato dai luoghi cantati da Plinio Martini, vergò un passaggio che letto oggi è al tempo stesso dolore e speranza: «Dove le frane diventano paesi (come Foroglio, ad esempio; n.d.r.). Strapiombi color ferro, un fiume selvaggio, massi enormi precipitati da chissà dove, case e tegole di pietra, gole muschiose intasate di nubi. È lunga la strada per arrivare in Val Bavona, il posto più buio delle Alpi (…). Quando piove, piove sul serio. Le gole catturano i temporali. Dopo un’ora, gli strapiombi diventano cascate e un muggito si impossessa della valle».
Lorenzo Martini conferma che, sì, «noi che viviamo lì sappiamo che è pericoloso, ma abbiamo imparato a conviverci. Non a caso quando piove da alcuni giorni è meglio andarsene. Ce l’hanno insegnato quelli che sono sopravissuti alle tragedie precedenti. Ma questa volta non è stato così. È arrivato tutto all’improvviso. Sembrava la fine del mondo, mi creda. C’erano tuoni in continuazione. È stato qualcosa di incredibile, pazzesco, impossibile da dimenticare».

Ricostruire e ripartire
E adesso cosa bisogna fare? Come ripartire? «È pleonastico dirlo, ma ci sono tantissime cose da fare. Innanzitutto la strada va ricostruita, e già questo è un problema non da poco. Va capito come e dove. In seguito vanno realizzati i ripari. Il riale Larechia ha squarciato gli edifici. Le case che, fortunatamente, sono state danneggiate poco, dovranno essere sistemate». Non crede che ora possa tuttavia subentrare la paura fra la popolazione e i villeggianti? «L’aspetto emotivo c’è, indubbiamente. Un anziano mi ha già detto che nella sua abitazione, distrutta, non ci tornerà più. Tra l’altro un rustico che, negli scorsi anni, avevo ristrutturato, oggi è completamente sotterrato. I proprietari non ne vogliono più sapere. Fa male, ancora più male. In ogni modo andrà considerato anche l’aspetto giuridico: cosa si potrà effettivamente ricostruire?».

Non poteva saperlo, Maestro
Una domanda, quest’ultima, che negli ultimi drammatici giorni molti si sono posti. Rendendosi subito conto che ora ciò che ha la priorità è la ricerca dei dispersi. E provare a ripartire. «E poi nel tempo di un’ave cadeva la frana e la piena rompeva gli argini spazzava i coltivi portava via le stalle intere con dentro il fieno e le vacche. Io ti dico che oggi il fiume non fa più disastri perché quelli che poteva li ha già fatti tutti». Non è stato così, purtroppo, Maestro, ma non poteva saperlo. Nessuno poteva immaginare un tale inferno, lo sfacelo di una valle.