Politica

«Pronti anche a cambiare il nome, ma siamo fieri della nostra storia»

L'intervista al presidente del PPD ticinese Fiorenzo Dadò
Gianni Righinetti
24.06.2022 06:00

Domani mattina, al centro eventi di Cadempino, si apre il congresso  cantonale del PPD. Con il presidente Fiorenzo Dadò affrontiamo il tema sicuramente più importante in discussione alle assise, ovvero il possibile cambio di nome del partito. Le proposte sono due: «Il Centro» oppure «Alleanza del Centro».

Domani il congresso del PPD affronterà la propria storia e il proprio futuro. In un momento di tante incertezze è un’incognita in più?

«No. Non la vedo come un’incognita, ma come un’opportunità. Naturalmente, non basterà cambiare nome senza una rivisitazione delle linee guida, del nostro pensiero, in un’ottica futura e moderna che risponda alle esigenze di adesso. Il Partito popolare democratico ha un’anima di centrodestra moderata e conservatrice, con una sensibilità sociale, anche se non è assolutamente un partito di sinistra. Per noi sono molto importanti i concetti di sussidiarietà, di prossimità, di comunità. Lo Stato che non deve sostituirsi al cittadino, alle associazioni o alle realtà locali, ma deve intervenire ad aiutare laddove la società da sola non riesce, non ce la fa. Il PPD è un partito sano, fiero di oltre 100 anni di storia e con un solido bagaglio alle spalle. Grazie anche al nostro contributo, questo Paese ha raggiunto il benessere economico e sociale che conosciamo».

Lei è pronto a cambiare il «Partito popolare democratico» in «Alleanza del centro» oppure «Il Centro»?

«All’inizio ero scettico ma poi, discutendo con il nostro presidente nazionale Gerhard Pfister, e sentendo il forte entusiasmo dei nostri giovani, mi sono convinto che con l’impegno di tutti, può rappresentare una bella ventata di freschezza. Da solo, certamente, non basterà per produrre risultati immediati, ma lavorando insieme con entusiasmo, potremo costruire il partito del domani».

A livello nazionale il passo è stato fatto, quasi tutte le sezioni hanno seguito la rotta. Ma il PPD latino è più sanguigno. E se alla fine non cambiasse nulla?

«È una possibilità, tuttavia già il fatto di riunirci a discuterne è molto positivo e ci entusiasma. Detto questo, non credo che non cambierà nulla. Attorno a questa riflessione sento un’aria positiva, nel senso che tanti popolari democratici hanno voglia di un cambiamento».

In altri Cantoni l’esperienza è stata positiva e i consensi sono cresciuti. Ma oltre al nome ci vuole sostanza e lei lo ha scritto su Popolo e libertà: «Cambiare il nome non basterà». Che cosa intende dire?

«Nei cantoni dove si riescono a fare le alleanze o dove è andata in porto la fusione con il PBD, il successo c’è stato. In Ticino, la situazione è un’altra e richiede anche un confronto costruttivo interno tra le diverse sensibilità. Per questo l’Ufficio presidenziale, negli scorsi mesi, ha dato un mandato all’Osservatorio della politica regionale affinché svolgesse un’indagine indipendente, proprio sui valori e sull’eventualità di cambiare il nome. I risultati, interessanti, verranno presentati al Congresso».

Non vi siete mai nascosti, il riferimento cristiano per il PPD è sempre stato al centro, ma oggi questa identificazione pare un po’ fiacca. È il segno dei tempi?

«Ci sono valori culturali che stanno alla base del nostro convivere civile, che ci derivano anche dalla tradizione cristiana e che non perdono smalto solo perché cambiano i tempi. Sebbene viviamo in una società secolarizzata e laica, questi principi sono condivisi da tutti, in quanto restano i punti cardinali per il mantenimento della democrazia, della giustizia e della libertà. Quando si parla di riferimento cristiano, si allude alle basi del nostro Stato democratico, che tutti vogliono tenersi ben stretto. Il PPD difende con convinzione questi valori, che poi sono i valori dell’Occidente e della nostra tradizione, valori che hanno permesso nei secoli di creare questo magnifico Paese. Valori attuali, validissimi anche nel 2022, ancor più quando attorno a noi spirano venti minacciosi di guerra. Nella sostanza, non bisogna aver nessun timore di difendere ciò che siamo, opponendoci, così come viene denunciato anche da Federico Rampini nel suo libro Suicidio Occidentale, al generale autolesionismo culturale, che si traduce nel rinnegare il passato e i suoi valori come se fossero la peste».

Spesso la forma è anche sostanza. Se doveste optare per «Alleanza del centro», vedo un problema di terminologia. Alleare significa unire, in senso politico-partitico. Insomma, l’Alleanza che fa un’alleanza. Non si rischia il cortocircuito?

«Sì, questo tema si pone, per questo al Congresso di domani verrà discussa e messa in votazione anche la forma, diciamo, più pura, quella direttamente traducibile dal nome del partito nazionale: Die Mitte, Il Centro».

Cambiare a ridosso delle elezioni può essere un vantaggio in termini di marketing. Le vostre idee resteranno immutate o, giocoforza, occorrerà una «rinfrescata»?

«Domani valuteremo se cambiare il nome, così come hanno fatto le altre sezioni svizzere. Come ho già avuto modo di dire, questo non sarà sufficiente. Si tratta di un primo importante passo, certamente interessante anche in termini di marketing. Ma poi occorre ridefinire meglio come declinare i valori a noi cari, in rapporto alla società attuale. Per essere concreti le faccio un esempio. Dall’indagine sono emersi in modo chiaro i valori condivisi dai popolari democratici. È la declinazione nella pratica a far sorgere a volte visioni diverse al nostro interno. Pensiamo, ad esempio, al concetto di famiglia, che nel mio partito è sempre stato un punto cardine. Se nel passato era chiaro, nella società attuale di quale famiglia stiamo parlando? C’è quella allargata e c’è quella tradizionale, e recentemente si sono aggiunte altre forme. Come si posiziona il mio partito di fronte a temi che riguardano queste nuove realtà? Ecco, occorre una riflessione interna, un chiarimento su aspetti importanti come questo».