Processo

Tre chili di cocaina in soli due mesi: starà dietro le sbarre per quattro anni

Condannato un «cavallino» giunto dall’Albania con l’unico scopo di vendere droga – Sette i viaggi tra Milano e il quartiere di Lugano dove alloggiava a casa di un consumatore locale che gli ha offerto ospitalità in cambio di qualche dose
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Valentina Coda
Valentina CodaeAriela Garetto
29.07.2025 18:19

La trama della storia è una di quelle che da anni, ormai, riempie pagine e pagine di incarti giudiziari, tanto che nell’ambiente è stato coniato un nomignolo per il soggetto che commette i fatti. Stiamo parlando del classico «cavallino» albanese che su mandato di un’organizzazione criminale raggiunge il Ticino con l’unico scopo di spacciare droga a consumatori locali, i quali si prestano a offrirgli ospitalità in cambio di qualche dose.

In questo caso, a balzare all’occhio nell’atto d’accusa stilato dal procuratore pubblico Simone Barca, è il quantitativo di cocaina detenuto e alienato dall’imputato e il breve arco temporale in cui ha delinquito: oltre 3 chili di cocaina in appena due mesi, dal 15 settembre al 20 novembre 2024, giorno in cui il 28.enne cittadino albanese è stato arrestato in flagranza di reato con quasi 1.900 grammi di cocaina detenuti nella stanza dove alloggiava in un quartiere di Lugano (chi lo ospitava verrà processato questa mattina alle Correzionali). Il quantitativo restante dello stupefacente, destinato all’alienazione tra il Luganese e il Mendrisiotto, avrebbe fruttato un guadagno di circa 75.000 franchi, denaro poi consegnato a una terza persona. L’uomo, patrocinato dall’avvocato Marco Morelli, prima di essere condannato dalla Corte delle assise criminali a 4 anni e 6 mesi da espiare ed essere espulso dalla Svizzera per 8 anni (con iscrizione al registro SIS), ha ammesso sì i fatti, ma ha contestato il quantitativo dello stupefacente, «sovrastimato dalla pubblica accusa», il numero di viaggi tra l’interland milanese e Lugano per il trasporto di cocaina – ha detto di aver preso parte solo a tre trasferte, non a sette –, e anche il costo totale dei proventi di reato – «dalle mie vendite dirette ho incassato 6 o 7 mila franchi, non ho mai avuto in mano la cifra contenuta nell’atto d’accusa».

Faccia a faccia

Per avere un quadro più chiaro relativo al numero di trasporti tra Italia e Svizzera, il giudice Paolo Bordoli ha optato per un confronto diretto in aula tra l’imputato e un altro uomo, sentito in veste di persona informata sui fatti e che verrà giudicata separatamente nell’ambito di un’altra inchiesta. Cioè l’uomo che ha prelevato in auto a fine agosto l’imputato all’aeroporto di Milano Malpensa e l’ha portato a Lugano. «Ho fornito cocaina all’imputato facendo sette viaggi tra Italia e Svizzera – ha dichiarato in aula –. Durante due di questi sette viaggi l’imputato era presente facendo la staffetta con il proprio veicolo, mentre ero da solo durante gli altri cinque, ma gli ho consegnato la droga brevi mano in un sacchetto una volta arrivato a Lugano».

Nella sua requisitoria, Barca ha evidenziato che questo processo è «l’ennesimo caso riguardante un cavallino albanese che viene accostato ad un’altra persona, soprannominata "lo zio", il cui nome ricorre in numerose altre inchieste». In ogni caso, le dichiarazioni rilasciate in aula dall’imputato sono state definite «inverosimili» dalla pubblica accusa e dipinte come un «maldestro tentativo di cambiare rotta e rimangiarsi quanto detto in precedenza». Inoltre, il quantitativo di droga «decisamente importante» e il «ridotto arco temporale di appena due mesi» denotano «un’intensità criminale non indifferente». Per questi motivi, Barca aveva chiesto che l’uomo fosse condannato a una pena detentiva di 6 anni ed espulso dalla Svizzera per 8 anni con iscrizione al registro SIS. Di contro, l’avvocato Morelli si è invece battuto per una massiccia riduzione di pena: non superiore a 36 mesi, ma sospesi per 20 per un periodo di prova di 5 anni. E anche l’espulsione non avrebbe dovuto superare i 5 anni. «Il mio assistito è solo un esecutore di ordini impartiti dal capo. Si è trovato in mezzo a una spirale autodistruttiva e con una difficile situazione familiare che voleva solo salvare. Ha agito per necessità e in sede d’inchiesta è stato collaborativo. Inoltre, l’impianto accusatorio è meramente indiziario e privo di una solida base fattuale». Una tesi, quella difensiva, che non ha fatto totalmente breccia nella Corte anche se, è stato detto in aula durante la sentenza, «l’atto d’accusa è forse un po’ impreciso e gli atti sono un po’ silenti a proposito del riciclaggio di denaro». Nonostante abbia ritenuto attendibili sia i sette viaggi effettuati sia il calcolo dei quantitativi indicati nell’atto d’accusa, la Corte non ha di contro trovato riscontri oggettivi per quanto riguarda i proventi dello spaccio, prendendo per buoni i 6 mila franchi indicati dall’imputato.

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