La sentenza

Venti mesi di carcere per il maxi contrabbando d'oro

Pena interamente da scontare per il 66.enne reo di essere stato a capo di una banda che ha trafficato oltre sette tonnellate d'oro dall'Italia alla Svizzera, eludendo l'IVA per quasi 22 milioni - Dovrà pagare anche 600.000 franchi di multa ed è stato espulso per 10 anni
©Gabriele Putzu
Federico Storni
12.12.2025 17:10

Partiamo dal dato saliente, poi complichiamo. La Corte delle assise correzionali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta ha condannato a venti mesi da espiare, a 600.000 franchi di multa e a dieci anni di espulsione dalla Svizzera un 66.enne italiano in quanto reo di aver imbastito ed essere stato a capo di un imponente traffico d’oro dall’Italia al Ticino fra il 2016 e il 2021. Un traffico di oltre sette tonnellate di metallo prezioso che ha generato un giro d’affari di circa 280 milioni di franchi con conseguente evasione dell’IVA per quasi 22 milioni: «Il 66.enne - ha detto Pagnamenta nel motivare brevemente la sentenza - ha posto in essere un ampio e collaudato sistema per importare oro dall’Italia. Un traffico di cui era al centro. E non ci sono dubbi che quell’oro era soggetto all’IVA. La sua colpa è molto grave per la spregiudicatezza e per l’intensità con cui ha agito». L’imputato, difeso dall’avvocato Filippo Ferrari, chiedeva invece di essere prosciolto.

Ma non è truffa

Il processo è stato anomalo in quanto non è stato retto dal codice penale, bensì dal diritto penale amministrativo. Ciò ha comportato che il sostituto procuratore generale Andrea Maria Balerna vi abbia presenziato più per la forma che per altro (non era chiaro se poteva non farlo), tant’è che l’inchiesta è stata condotta dall’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini (UDSC) e la requisitoria pronunciata dalla giurista dell’UDSC Laura Peci. In questo senso l’accusa principale mossa al 66.enne era quella di truffa aggravata in materia di prestazioni e di tasse. Un’accusa da cui è stato però prosciolto, come richiesto dalla difesa, in quanto per giurisprudenza non può esservi un inganno astuto - cosa necessaria affinché si possa parlare di truffa - se non vi è interazione con il doganiere al momento di passare il confine, come in questo caso.

A venire in soccorso all’UDSC è stata però la Legge federale sull’IVA, che l’uomo ha infranto - citiamo dall’articolo 96 - «non dichiarando merci, dichiarandole in modo inesatto od occultandole, intenzionalmente o per negligenza, all’atto della loro importazione». «Il 66.enne ha agito per non pagare l’onere fiscale - ha detto Pagnamenta. - Se uno occulta e produce documenti falsi non può non pagarne le conseguenze».

Scricchiola, ma tiene

In questo senso, Pagnamenta ha fatto notare che vi è un caso «macroscopico» di falsità in documenti, che l’UDSC avrebbe potuto istruire. In generale l’atto d’accusa ha scricchiolato ma ha tenuto: è infatti stato ritenuto dalla Corte un po’ troppo vago e impreciso, ma comunque sufficientemente comprensibile affinché l’imputato si potesse difendere dalle accuse.

La decisione che «pesa come un macigno»

A «pesare come un macigno» sulle sorti processuali dell’imputato vi è poi stata la parallela procedura amministrativa. Per gli stessi fatti l’UDSC aveva chiesto la restituzione dei 22 milioni anche per quella via e... l’ha ottenuta. La richiesta è infatti cresciuta da tempo in giudicato, cose che implica l’accettazione da parte dell’imputato della fattispecie. Su questo punto l’avvocato Ferrari (subentrato successivamente all'accaduto nella difesa del 66.enne) ha parlato di una svista nel non impugnare la decisione e non di volontà (perché altrimenti contestare il tutto nel penale?), ma senza convincere la Corte.

A prescindere da questa procedura, Pagnamenta ha comunque ricordato come vi fossero altri numerosi elementi per condannare l’uomo, fra cui la copiosa documentazione falsa, diverse chiamate in correità, e quanto trovato nei locali a lui in uso dopo il suo fermo: circa 650.000 euro in contanti nascosti nella cappa del camino e in un divano, un passaporto russo, 11 carte d’identità italiane, 39 telefoni cellulari e, sotto una piastrella, un hard disk denominato «Cervello» che conteneva la contabilità occulta del traffico d’oro.

Come funzionava

Quanto allo schema criminale con a capo il 66.enne - che è oggetto di indagine anche in Italia - consisteva nel raccogliere oro (gioielleria, monete, lingotti) nella Penisola e portarlo grazie a spalloni e ad auto con ricettacoli in Ticino, dove l’imputato allestiva documentazione falsa tramite tre sue società di Lugano, Chiasso e Roveredo (Grigioni) necessaria affinché le fonderie locali si occupino del materiale. Dopodiché il denaro ottenuto dalla vendita dei lingotti - il tutto sempre e rigorosamente a contante - tornava in Italia per comperare altro oro, meno le «commissioni» dei partecipanti alla banda. Diverso oro è finito in Germania, via Liechtenstein, dove un presunto correo del 66.enne è stato condannato a sei anni e mezzo. Lo stesso 66.enne ha un precedente specifico in Italia nel 2017, per le stesse modalità. Se ieri in aula c’era solo lui è perché i suoi presunti complici - gli stessi indagati in Italia, raggiunti qui da decreti d’abbandono - non sono stati ritenuti perseguibili ai sensi del diritto penale amministrativo.

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