«Vogliamo essere ancora di più artefici e stimolo di innovazione»
La SUPSI compie 25 anni. Compleanno tondo che equivale a una piena maturità. Sì, ma anche all’esigenza di scoprire ancora molto del suo potenziale. L’evoluzione della SUPSI passa da un dinamismo che appare sistematico, dalla continua esigenza di crescere rispondendo ai reali bisogni della società e anticipando per quanto possibile il futuro in ambito formativo e professionale.
Direttore, quindi, a che punto è la SUPSI?
«Se penso a come è stata percepita la SUPSI nelle sue varie fasi di sviluppo, posso dire che oggi siamo diventati un partner affidabile cui fare riferimento sull’arco dell’intero percorso professionale. Un traguardo importante per una realtà che vuole essere ancorata al proprio territorio. In alcuni ambiti siamo un punto di riferimento per i nostri giovani, penso al lavoro sociale, alla fisioterapia, alla sanità, al design, alla musica, al teatro, alla formazione degli insegnanti, ambiti in cui le SUP hanno la responsabilità accademica. In altri settori vogliamo diventare sempre più attrattivi grazie al nostro profilo pratico e professionalizzante, ma il discorso è più complesso e chiama in causa l’intera filiera professionale. Considerato che il 50% circa dei giovani sceglie le scuole medie superiori - quasi il doppio rispetto alla media nazionale -, credo che si debba lavorare ancora di più spalla a spalla con le aziende e le organizzazioni dei mondi del lavoro per sviluppare ulteriormente l’intera filiera. Occorre anche favorire la flessibilità: a tal proposito da anni proponiamo diverse soluzioni che consentono di coniugare lo studio e l’attività professionale. Nella formazione continua coinvolgiamo ogni anno migliaia di professionisti con un’offerta molto flessibile e individualizzata. Nella ricerca e i servizi, ci sono ambiti disciplinari nei quali siamo diventati progressivamente un riferimento per la comunità accademica nazionale e internazionale. Basti pensare, per citarne alcuni, all’intelligenza artificiale, alla produzione industriale, all’energia fotovoltaica, alla robotica educativa o ai servizi sanitari. Dovremo essere bravi in futuro a confermare un ruolo di primo piano in questi e altri contesti storici e svilupparne di ulteriori, allineati ai bisogni della società. La responsabilità è grande. Il compito è stimolante».
Fuori dai bilanci, qual è il ruolo della SUPSI oggi nel nostro territorio? Quale il peso, anche al di là del discorso formativo?
«Parto da una premessa: il nostro obiettivo è quello di essere presenti soprattutto dove riteniamo di offrire un valore aggiunto alle aziende e alle organizzazioni attive nel territorio come pure alla comunità accademica. In alcuni contesti, come detto, siamo già un punto di riferimento solido. Dovremo essere capaci in futuro di ampliare ulteriormente il nostro portafoglio di contatti e relazioni aprendoci anche ad altri ambiti, ad altre realtà. Possiamo farlo solo chiedendoci, sempre e con continuità, come essere utili nei vari contesti di riferimento. Le SUP, nel loro DNA, sono abituate a dialogare e collaborare con il territorio. Vogliamo poter essere ancora di più artefici e stimolo di innovazione, anche nei settori dove il cambiamento sembra più lento e complesso ma è altrettanto indispensabile».
La SUPSI è insomma costretta a guardare sempre avanti. Ma questo dinamismo come si concilia con l’identità dell’istituto?
«È utopico pensare di poter anticipare ogni sfida nelle decine di settori in cui operiamo. Cerchiamo comunque di essere all’avanguardia il più possibile, anche perché abbiamo una grande responsabilità: prevedere il futuro delle varie professioni e formare i nostri studenti affinché si trovino pronti ad affrontare le sfide che verranno e sviluppare ricerca e servizi innovativi. Nel contempo, dobbiamo sostenere i professionisti attivi affinché rimangano al passo dei continui cambiamenti. Dobbiamo quindi offrire competenze costantemente aggiornate in un mercato che cambia sempre più rapidamente e in direzioni spesso imprevedibili. Ogni settore disciplinare è differente e viaggia a velocità diverse. È quindi fondamentale mettere in campo ogni giorno i nostri valori comuni, nei quali tutti possano riconoscersi e riconoscere la SUPSI».
Per qualcuno la SUPSI farebbe persino troppe cose, al punto da rendere in qualche modo opaca la sua identità. Che ne dice?
«L’identità dipende da quello che ci accomuna: missione, visione e valori sono indipendenti dal settore di attività. Comunque è chiaro: facciamo tante cose e dobbiamo prestare attenzione ad avere una visione unitaria del nostro ruolo. Dovessi esprimere un desiderio per il futuro, mi piacerebbe che tutti i miei colleghi e le mie colleghe riconoscessero sempre di più la nostra comune identità e vivessero con orgoglio il fatto di lavorare alla SUPSI. A volte ho la sensazione che l’appartenenza alla nostra istituzione non venga vissuta con sufficiente fierezza. E lo stesso vale per i nostri studenti. Sono loro gli ambasciatori più influenti per le giovani generazioni».
Insufficiente fierezza, come mai?
«Non è semplice rispondere. Forse, talvolta, il nostro è un approccio comunicativo troppo modesto. Ciò da un lato va anche bene, perché ci consente di non sovraesporci, ma non deve condurci a sottostimare l’importanza di quanto facciamo».
Si è parlato molto, ultimamente, dell’USI e del ruolo del suo rettore. Meno (per motivi diversi) della SUPSI e del suo direttore generale. Quale ritiene debba essere il suo ruolo all’interno del discorso pubblico?
«Sono sempre stato reticente nel prendere posizione su temi di cui non sono significativamente competente. Posso esprimermi su aspetti legati alla politica accademica o formativa, ma non su tendenze e specificità in cui sono esperti i miei colleghi o altri attori della società. Ritengo che il mio compito sia piuttosto quello di favorire condizioni quadro affinché chi può offrire un contributo di riflessione qualificato venga stimolato a esprimersi liberamente, rispettando ovviamente il proprio ruolo quando rappresenta la SUPSI. Sembra semplice, ma non lo è, soprattutto quando le opinioni espresse non piacciono a tutti. Sono aspetti correlati a valori fondanti di un’università, come l’autonomia o la libertà di espressione. Il mio compito diventa anche difendere questi valori quando le opinioni espresse sono controverse e criticate».
Cosa ci indica la crescita logistica della SUPSI?
«Si dice: il contenuto è più importante del contenitore. Vero. Ma il contenitore è comunque importantissimo, a maggior ragione per attività centrate sulle relazioni interpersonali, come la formazione e la ricerca. I due nuovi campus di Viganello e Mendrisio rappresentano miglioramenti decisivi del nostro assetto logistico, con spazi attrattivi per tutta la comunità accademica. Diventando proprietari degli immobili abbiamo anche sensibili risparmi economici. La strategia di avere sedi distribuite nel territorio, considerandolo come un’unica Città Ticino, è inoltre a mio avviso vincente, specie sul lungo termine».
E ora ci sono più cantieri aperti.
«Direi almeno quattro, con orizzonti temporali diversi. Nel breve termine, il nostro obiettivo prioritario è quello di realizzare i progetti nel quartiere della Stazione di Lugano. Importante anche lo spostamento del Conservatorio nella futura Città della musica nell’attuale sede RSI di Besso. Sempre pensando alle nostre scuole affiliate, l’Accademia teatro Dimitri ha pianificato di trasferirsi nella Caserma di Losone, dando così nuovi impulsi culturali al comparto. Sono investimenti importanti, che speriamo di realizzare nei prossimi 6-8 anni. Guardando oltre il 2030, è per noi fondamentale insediarci nel quartiere delle Officine di Bellinzona; una presenza che avrebbe diversi vantaggi, a cominciare da quelli legati all’ubicazione all’interno della futura sede dello Switzerland Innovation Park».
Collocare le sedi vicino alle stazioni ferroviarie rientra anche in un discorso di sostenibilità. Uno dei temi, se non il tema, dei festeggiamenti per il 25. compleanno.
«Sento parlare di sostenibilità da sempre, ma mai come in questo periodo sono sensibile al suo significato profondo. Oggi, indipendentemente dal tema, quasi tutte le discussioni sono orientate al futuro. Basta sfogliare un giornale: tutto è interdipendente e proiettato a ciò che arriverà, a ciò che saremo e alle conseguenze del nostro agire nel medio e lungo periodo».
L’effetto farfalla.
«Sì, abbiamo imparato negli ultimi due anni quanto siamo interconnessi nei vari ambiti della società e quante conseguenze globali possono avere accadimenti apparentemente locali. La pandemia lo ha messo in luce, le conseguenze legate al conflitto nell’Europa dell’est ne sono un ulteriore esempio. Insomma, un periodo rivelatore, almeno per me, anche dell’importanza e della responsabilità che abbiamo, con la nostra capacità di affrontare queste sfide in termini interdisciplinari e interprofessionali. Dobbiamo, prima di tutto, capire cosa significhi sostenibilità, essere da esempio e poi supportare il territorio nell’implementazione di azioni legate a tali principi. E trasferire questi concetti e approcci nei nostri insegnamenti e nella nostra ricerca. Il fatto di formare tutti gli insegnanti della scuola dell’obbligo e del medio superiore costituisce un’ulteriore grande responsabilità e straordinaria opportunità per sensibilizzare le future generazioni lasciando così un’impronta positiva nel territorio».
E come fare per aprirsi oltre il territorio? Al contrario dell’USI, la SUPSI non ha un’allure internazionale.
«L’apertura internazionale costituisce un elemento centrale di tutte le università. In alcuni campi siamo molto attivi da anni sul piano internazionale, in altri siamo più orientati alla dimensione locale, e su questo vogliamo riflettere in prospettiva. I master nei contesti dell’ingegneria, della musica, dell’interaction design, della conservazione e restauro, del teatro, sono per loro natura internazionali. Tutti i nostri studenti hanno numerose opportunità di aprirsi oltre i confini cantonali e nazionali. Nella ricerca partecipiamo a tanti progetti in ambito europeo e siamo da molti anni la SUP svizzera maggiormente attiva in questo contesto. L’apertura internazionale è fondamentale anche per attirare figure accademiche di spessore. Vale pure per richiamare ticinesi che hanno lasciato il cantone. In futuro ci impegneremo per rafforzare ulteriormente la nostra dimensione nazionale e internazionale, a tutto vantaggio dell’apertura e degli scambi di cui il Ticino ha assolutamente bisogno».