Tredicenne vittima di bullismo si suicida, la famiglia denuncia Meta

«Nessuno ci ha aiutati. Siamo stati delusi da tutti». È una denuncia amara e piena di dolore quella di una donna francese, che davanti alle videocamere di BFM TV, ha annunciato di avere fatto causa a Meta dopo il suicidio della figlia 13.enne, avvenuto a metà maggio. «Se tutti avessero fatto il loro lavoro per proteggere Lindsay, sarebbe viva».
La ragazza si è tolta la vita a soli 13 anni dopo essere stata vittima di bullismo a scuola. Mesi prima del gesto estremo, aveva scritto una lettera che l'avvocato della famiglia ha voluto rendere pubblica: «Se state leggendo questo mio scritto, allora probabilmente me ne sono andata. Non potevo sopportare gli insulti mattina e sera, le prese in giro, le minacce. Nonostante tutto quello che è successo, vorranno sempre farmi del male». Da qui la rabbia della madre: «Se avessimo avuto aiuto, se avessimo avuto sostegno, sono sicura che mia figlia sarebbe ancora con noi».
La famiglia dell'adolescente ha puntato il dito contro il «lavoro» che non sarebbe stato fatto, anche a scuola. «Ho provato di tutto, ho fatto di tutto, ma non abbiamo avuto alcun aiuto, siamo stati completamente abbandonati, non abbiamo avuto alcun sostegno, né prima, né durante, né dopo», ha denunciato la donna.
L'indagine giudiziaria ha condotto all'incriminazione di quattro minori per «molestie scolastiche che hanno portato al suicidio» e di un adulto per «minacce di morte». Ma, stando al legale della famiglia, anche Meta si sarebbe rivelato «completamente inadeguato» nel permettere il proliferare di «discorsi d'odio», anche dopo la morte della studentessa che frequentava la scuola di Vendin-le-Vieil, nel nord della Francia. «La morte di Lindsay non è stata sufficiente, ancora successivamente gli insulti hanno continuato a circolare sui social, anche tuttora», ha dichiarato. L'avvocato ha mostrato i post di Instagram, proprietà di Meta, in cui alcuni utenti esultano per il suicidio dell'adolescente. Il social, per la famiglia, si è reso colpevole di una «totale violazione» dell'obbligo di moderare e controllare i contenuti pubblicati sulle sue piattaforme.
I precedenti
Un caso che riporta alla mente quanto accaduto, ancora in Francia, a inizio anno. Quando Lucas, 13 anni, ha deciso di togliersi la vita. Viveva a Golbey, un comune situato nel dipartimento dei Vosgi. Aveva dichiarato ai compagni di scuola di essere gay e da quel momento era stato oggetto di continui atti di bullismo. Lo aveva riferito ai genitori, che avevano a loro volta denunciato le violenze subite dal figlio ai suoi insegnanti. Ma le vessazioni erano continuate.
Ma, andando indietro nel tempo e spostandoci nella vicina Italia, i casi non mancano. Il 5 gennaio 2013 Carolina, 14.enne di Novara, si è tolta la vita dopo che il video della violenza di gruppo di cui era stata vittima era finito su Facebook. Una tragica vicenda legata a doppio filo con i social. Tanto che la procura di Novara aveva aperto quasi subito un’indagine su Facebook per la mancanza di controlli rispetto alla diffusione del video e su Twitter erano comparsi 2.600 messaggi di scherno contro la ragazza in 24 ore. Non solo la violenza, in quel tragico caso, ma la riprese video, la condivisione, i re-post, i commenti. «Scusatemi, non ce la faccio più a sopportare», aveva scritto la ragazza, proprio su Facebook, prima del tragico gesto.
C'è poi il suicidio di Tiziana Cantone, 31.enne di Mugnano morta il 13 settembre 2016. La donna si era tolta la vita dopo che alcuni suoi video hot erano diventati virali sui social. E Facebook era finito in tribunale. Il Tribunale civile di Napoli Nord, a quel punto, aveva parzialmente rigettato il reclamo che Facebook Irleand aveva presentato, dando ragione alla madre della giovane. Per i giudici, i link e le informazioni sulla 31.enne postate su diverse pagine del social avrebbero dovuto essere rimossi anche senza un preciso ordine da parte dell'autorità amministrativa o giudiziaria, come invece aveva invocato Facebook nel reclamo. Aveva invece accolto la tesi del colosso americano relativamente al controllo preventivo che Facebook non è tenuto a fare su tutte le informazioni caricate sulle pagine. La 31.enne, prima di morire, si era rivolta al giudice con un ricorso d'urgenza per chiedere il diritto all'oblio e la cancellazione di tutti i link che riproducevano le scene sessuali di cui si era resa protagonista, da lei inviate ad alcuni amici in forma riservata via WhatsApp ma finite sui social senza il suo consenso (revenge porn). Un principio di fondamentale importanza, per la famiglia, perché «Facebook e più in generale gli hosting provider hanno l'obbligo di rimuovere contenuti illeciti dal momento in cui avviene la segnalazione di tale illiceità da parte dei soggetti interessati, anche in mancanza di un espresso ordine da parte dell'Autorità Amministrativa o Giudiziaria». Nel caso specifico, aveva spiegato l'avvocato, «è stato accertato che Facebook aveva omesso di provvedere alla rimozione delle pagine incriminate, nonostante la loro illiceità fosse stata resa nota con apposite segnalazioni da parte dei legali della donna».
Nell'aprile 2017, dopo il caso di Tizia Cantone, Facebook ha annunciato una stretta sul revenge porn. «Gli utenti avranno la possibilità di segnalare in modo mirato quelle immagini personali o intime che vedono sul social e che sembrano condivise senza permesso di coloro che vi sono ritratti. Le foto a quel punto saranno riviste da un team in carne e ossa che potrà anche decidere di disattivare l'account che le ha pubblicate – si leggeva nella nota –. Facebook userà un sistema di "foto-matching", per il riconoscimento delle immagini, che aiuterà a contrastare ulteriori tentativi di condivisione delle foto. Non solo su Facebook, ma anche sulla chat Messenger e su Instagram. In pratica, se qualcuno cercherà di ricondividere l'immagine dopo che questa è stata segnalata e rimossa, l'utente sarà avvisato della violazione e la foto non potrà essere condivisa».