Un ticinese ad Harvard, nella morsa di Trump: «Spero di poter finire, altrimenti vorrebbe dire aver sprecato 4-5 anni»

Harvard, nell’immaginario collettivo, è il non plus ultra della formazione e della ricerca. La stessa cultura pop, basti pensare alle tante serie televisive o ai film con, al centro, la scelta dell’ateneo da frequentare, pone questa università in alto. Logico, di riflesso, che l’istituto con sede a Cambridge, nel Massachusetts, sia ambito anche dagli stranieri. Meno logico, per contro, l’atteggiamento di Donald Trump e della sua amministrazione nei confronti di Harvard e, allargando il campo, delle università statunitensi. Riassumendo al massimo, il lungo litigio fra l’attuale presidente degli Stati Uniti e l’ateneo si è tradotto in un ordine imperativo: «Harvard non può più iscrivere studenti stranieri e gli studenti stranieri già iscritti dovranno trasferirsi o perdere il loro status legale», secondo una nota del Dipartimento della sicurezza interna. Il giro di vite, nel frattempo, è stato contestato dall’università che, tramite un giudice federale, è riuscita a bloccare temporaneamente la decisione di Trump. Il clima di incertezza, tuttavia, resta. E colpisce i tanti studenti stranieri, appunto.
Andrea Michele Sartori, ticinese, studia e lavora nella Longwood Medical and Academic Area, dove hanno sede prestigiosi istituti e ospedali universitari associati ad Harvard come la Harvard Medical School e il Beth Israel Deaconess Medical Center. Dopo aver conseguito un dottorato in neuroscienze al Politecnico federale di Zurigo, nel 2021 ha scelto proprio Harvard per un post-dottorato. Le sue ricerche si concentrano sul midollo spinale e sui circoli che controllano la vescica. «Mi sono trasferito negli Stati Uniti e nello specifico ad Harvard – confida al Corriere del Ticino – perché vorrei perseguire una carriera accademica». E nel campo del Dottor Sartori, evidentemente, Harvard è il massimo. «La zona di Boston, in generale, è il massimo per la ricerca biomedica».
Come tanti altri studenti e ricercatori stranieri, anche il nostro interlocutore sta vivendo giorni particolari. Caratterizzati da attese, ansie e poca, pochissima chiarezza. «Il punto è proprio questo» afferma. «La mancanza di chiarezza e trasparenza. Nessuno sa che cosa succederà domani. Da mesi, lo sappiamo, Harvard è in lite con l’amministrazione Trump». L’università, fra le altre cose, si è rifiutata di accogliere le richieste del governo statunitense, fra cui quella di eliminare i programmi su diversità, equità e inclusione. Si era sempre parlato, però, di tagli a livello di fondi. Fino a giovedì, quando invece a essere toccati sono stati, direttamente, gli studenti non americani. «È vero – sottolinea il ricercatore ticinese – che senza fondi o con meno fondi molta ricerca era e rimane in pericolo, ma nessuno in cuor suo pensava che l’amministrazione sarebbe arrivata, infine, a una mossa del genere».


Si dirà: pazienza, alla peggio uno può prendere armi, bagagli e traslocare in un’altra università, magari in Europa. Non funziona proprio così, in realtà, a maggior ragione per i cosiddetti post-doc come Sartori: «Ho scelto l’America, e quindi un salario più basso rispetto alla Svizzera, pensando proprio alla carriera accademica. Pensando, insomma, al mio futuro. Se dovessero mandarmi via dall’oggi al domani, con la mia ricerca ancora da concludere, ci vorrebbero fra i cinque e i sei anni solo per preparare il terreno, altrove, in vista di una nuova ricerca». Detto in altri termini, Andrea non potrebbe eventualmente riprendere subito, da un altra parte, i progetti che sta portando avanti ad Harvard. «Io, per dire, lavoro con i topi. Animali che vanno preparati in un certo modo, e per i quali gli standard da Paese a Paese sono differenti. Per tacere delle attrezzature che utilizzo, molto costose. Dovrei, per farla breve, trovare un laboratorio disposto ad assumermi e, parallelamente, dei fondi di ricerca».
Harvard, sia in generale sia pensando alla Medical School, ha reagito all’istante, giovedì, «mandando un’e-mail a tutte le persone interessate nella quale, in sostanza, l’ateneo affermava di voler inoltrare ricorso alla decisione». Un invito alla calma in un momento di forte, fortissimo caos. «Ma parliamo di rassicurazioni vaghe, perché la stessa università non può sapere che cosa accadrà in futuro». La vita, fino a quel momento, per Sartori e gli altri stava procedendo come d’abitudine. Senza particolari scossoni. «C’era, come adesso, sempre questa sorta di non detto o di dubbio circa la nostra permanenza, c’erano alcuni ricercatori a cui erano già stati tolti i fondi ma se pensiamo all’intera struttura non è che l’avvento di Trump avesse rivoluzionato la quotidianità». Lo stop agli studenti stranieri ha stravolto tutto, al di là del citato ricorso con effetto sospensivo. «So di persone che, venerdì, non si sono presentate nell’ospedale in cui lavoro perché temevano, in quanto straniere, di incontrare agenti dell’ICE, l’Agenzia federale responsabile dell’immigrazione». Sartori, dal canto suo, come detto confida di poter portare a termine i suoi progetti legati al post-dottorato. «Entro la fine dell’anno, mi ero detto, posso arrivare alla pubblicazione sulle varie riviste scientifiche, per poi piano piano rientrare in Svizzera. A questo punto, spero vivamente di poter portare a termine il mio ciclo qui. In caso contrario, vorrebbe dire aver sprecato quattro-cinque anni».