La testimonianza

«Vi racconto le donne di Arzo che non voltarono la faccia»

In guerra non ci furono solo episodi negativi come quello subito da Liliana Segre Isolina Walder Guglielmetti ricorda il coraggio e l’aiuto della gente ai fuggiaschi
Isolina Walder Guglielmetti con il marito Konrad (foto Montanari/CdT).
Michele Montanari
24.01.2019 19:00

«La gente affamata scappava dalla guerra e noi cercavamo di aiutarla con il poco cibo che avevamo. Anche i bambini facevano la loro parte». La signora Isolina Walder Guglielmetti aveva nove anni nel 1943, viveva ad Arzo e nella vicina Italia infuriava il conflitto mondiale. I protagonisti del suo racconto sono persone comuni. Madri, sacerdoti e soldati, personaggi finiti nel grande libro della Storia come semplici comparse, in pagine che non avremmo voluto leggere mai. Per chi scappava dal nazifascismo il confine svizzero era molto di più di una linea di demarcazione tra due Paesi. Per quelle persone la frontiera poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Dietro a quella linea c’era il profumo della salvezza. Una speranza, questa, inseguita anche da Liliana Segre, quando nel 1943 arrivò ad Arzo con suo padre e due parenti. La senatrice italiana nell’intervista pubblicata dal Corriere del Ticino lo scorso 30 novembre raccontava che «(...) mentre noi felici avremmo salutato tutti per la strada, la gente ci ignorava. Era mattina presto. Le donne erano andate a prendere il latte. Nessuno ci guardava. Ci scansavano e questo ci fece un certo effetto». Dalle sue parole emerge l’indifferenza delle abitanti dell’attuale quartiere di Mendrisio, che le voltarono le spalle quando, ancora bambina, cercava aiuto in Ticino. Ma chi ha ragione? Liliana Segre o Isolina Walder Guglielmetti? Tutte e due. Vediamo il perché.

Il racconto della signora Segre non è passato inosservato e quasi ogni giorno i nostri lettori hanno scritto un loro parere su quell’episodio. Se l’imprenditore Alberto Bernardoni, nell’opinione del 5 dicembre, ha definito provocatoriamente le donne di Arzo come «ciniche e vili», Isolina Walder Guglielmetti, nell’edizione del 12 dicembre, ha voluto rendere omaggio a sua madre e tutte le compaesane «degne di rispetto», che in quegli anni di buio pesto si mobilitarono per aiutare chi fuggiva dalla guerra. Così, dopo aver intervistato Liliana Segre (cfr. CdT del 30 novembre), abbiamo incontrato la signora Isolina per capire anche questa parte della storia.

Mamma Anna

Isolina ci accoglie nella sua abitazione di Vezia insieme al marito Konrad. C’è aria di serenità in casa loro. Con un po’ di immaginazione si possono quasi vedere i bambini che scorrazzano in salotto, sentendosi protetti e al sicuro. E la foto dei nipoti sorridenti appesa al muro è solo una conferma. Ci sediamo sul divano, tra coperte e morbidi cuscini. Ciò che stiamo per ascoltare stride terribilmente con l’atmosfera in cui siamo immersi. Quando chiediamo a Isolina di parlarci di sua madre Anna, la mente corre subito alla guerra. Ci racconta - rigorosamente in dialetto - il conflitto mondiale visto da Arzo, mentre il marito, che nel quarantatré viveva a Zurigo, ricorda ciò che succedeva oltre San Gottardo. Sembra di sentire la stessa identica storia, come se la guerra, nella sua brutalità, fosse stata capace di annullare ogni distanza, in un dramma universale che accomunava tutta la razza umana, trasformatasi in quegli anni nel «genere dis-umano», come per una sorta di anti-darwiniana «involuzione della specie».

Cerchiamo testimonianze sulle donne di Arzo e Isolina si lascia andare ai ricordi: «Tutti i giorni arrivavano persone dall’Italia. Penso che quello di Liliana Segre fu un caso isolato. Erano tempi difficili per tutti, perché la guerra c’era anche per noi. Non credo che le donne di Arzo voltarono le spalle a quella bambina per indifferenza, ma perché erano sempre piene di pensieri per la testa, a partire dalla necessità di trovare il cibo per sfamare i propri i figli. Bisognava essere lì, in quegli anni, per capire», sostiene Isolina, sottolineando come fossero numerose le sfide da affrontare, oltre alla fame.

C’era, ad esempio, il problema dei pidocchi. «Tutte le mattine a scuola gli insegnanti ci controllavano i capelli. Una volta due mie compagne con i pidocchi vennero rasate a zero dal maestro. Sono cose che fanno male: i bambini ridevano davanti a quelle poverette calve. Le nostre madri dovevano pensare a tutti questi problemi e gli uomini erano spesso via per lavoro». La nostra interlocutrice aggiunge: «Io non ci credo che abbiano ignorato quella bambina, non riesco neppure ad immaginarlo. Quelle donne, tra cui la mia mamma, hanno fatto di tutto per chi fuggiva dalla guerra. Raggiungevano la piazza, anche di notte, portavano il cibo e lo davano a tutti».

Un fiume nella notte

La signora rievoca un episodio emblematico: «Ricordo che una notte si sentiva un rumore fortissimo, sembrava l’acqua che scorre in un fiume – cerca di farcelo intuire stropicciando ripetutamente la pagina di un giornale appoggiato sul tavolino -. Quel frastuono era provocato da tutte le persone che entravano ad Arzo. Mio papà era in Svizzera interna per lavoro e io dormivo con mia mamma. Il rumore svegliò me e la mia sorellina. Lei cominciò a piangere. Mia madre era sparita, così iniziai a gridare: ’’Mamma! Mamma!’’, ma lei non rispondeva. Sentivo il frastuono all’esterno della casa, con uno scialle coprii mia sorella e insieme andammo in piazza a vedere cosa stava succedendo. Mia madre era lì, con tante altre donne: avevano piazzato un tavolino di ristoro per sfamare la gente che aveva attraversato il confine a piedi».

C’erano persone di ogni estrazione sociale: «Aiutavano i ’’poveracci’’, ma anche i ’’sciuri’’, che avevano pesanti valige. Noi bambini facevamo la nostra parte: di mattina portavamo i loro bagagli con i carretti, percorrendo la strada di terra battuta, da Arzo a Mendrisio. Erano 5 chilometri. A volte non ti dicevano neanche ’’grazie’’. Magari c’era un povero disperato a cui davi un pezzo di pane e non sapeva proprio come sdebitarsi, ma quelli più ricchi, che venivano dalle città, spesso ti guardavano dall’alto in basso. Cercavamo di dare a tutti qualcosa da mangiare, ma anche noi non avevamo granché. La mia famiglia possedeva una vacca, mischiavamo l’acqua col latte, per riuscire a darne a più gente possibile».

Persone, cibo e lettere

Dai ricordi di Isolina affiorano momenti davvero drammatici. Lì sul confine la gente lottava per sfuggire alla morte: «La nostra casa era vicina alla ramina, si passava dai boschi per raggiungerla, su al Poncione d’Arzo. Un giorno una donna di Milano riuscì ad arrivare fino a lì. Scappava dalla guerra, aveva con sé un bambino trovato per la strada e i due figli: uno avrà avuto non più di 8 mesi. Quella sera nevicava forte e i soldati tedeschi stavano controllando i valichi con i cani. Non so come abbia fatto a passare il confine senza farsi vedere o sentire. Aveva scavato con le mani nella terra sotto la recinzione per riuscire a passare con i tre bambini. Le guardie svizzere la trovarono la mattina seguente e fu accolta, non la respinsero».

Secondo la nostra interlocutrice «i soldati, anche se dovevano eseguire gli ordini, soffrivano come tutti per le sorti di quelle persone. Una mia amica mi raccontò di aver visto una guardia che stava scortando verso l’Italia una famiglia. Quel soldato piangeva, perché era obbligato a farlo. Mi spiegò che quella fu la prima volta in vita sua in cui vide un uomo piangere. Nonostante gli ordini di espulsione, le donne di Arzo che scendevano in strada a distribuire il cibo, non furono mai ostacolate dai soldati».

I viveri nel cappello del prete

Isolina ci spiega che le guardie le lasciavano libere di fornire il proprio supporto a chi arrivava dall’Italia, anche se tra gli abitanti poteva esserci chi nascondeva i fuggiaschi. È il marito Konrad ad aggiungere, per esempio, che «a Massagno c’era una casa, vicino all’attuale cinema Lux, con una cantina enorme, dove si nascondevano molti ’’clandestini’’. Un prete faceva la spola da Chiasso, e aiutava la gente che passava il confine a trovare un rifugio in quel posto».

È quasi superfluo aggiungere che chi aiutava i fuggitivi rischiava di passare guai seri. Si sconfinava anche per i rifornimenti di cibo, racconta la donna: «Avevamo molti amici in Italia, perché per noi era più comodo andare a Saltrio a fare la spesa. Il percorso è più pianeggiante rispetto a quello per Mendrisio. Cucivamo delle tasche in pezzi di stoffa che nascondevamo sotto i vestiti. Così potevano ’’trafficare’’ riso, sale, caffè o la saccarina, che era parecchio cara e ricercata: veniva pagata bene o la si poteva scambiare, persino con borse o vestiti. Molte persone non avevano proprio niente da mangiare, e ci arrangiavamo così».

Come don Camillo

Anche i sacerdoti facevano la loro parte. «C’era un prete che nascondeva viveri sotto il cappello - prosegue la donna -. Era quadrato, come quello di don Camillo. I religiosi non venivano perquisiti al confine, li lasciavano passare. Anche loro portavano beni di prima necessità da una parte all’altra. Oggi si vede la gente buttare via il cibo senza porsi problemi, a quei tempi invece si rischiava la vita per un po’ di riso». Si correvano pericoli anche per far arrivare la posta in Italia, perché non poteva più essere spedita. Isolina ci regala una lucida testimonianza anche su questo, raccontando di un suo conoscente di Besazio «arrivato lì dai suoi nonni grazie alla madre, che aveva il passaporto svizzero» mentre il padre era rimasto oltre confine. «Per la corrispondenza sua madre andava al valico di Clivio, e buttava di là, vicino alla Ca’Bella, pacchetti con dentro le lettere. Dall’altra parte c’era qualcuno che li recuperava, e a sua volta lanciava nel nostro territorio quelle destinate a noi. Si usava fare i versi degli animali per attirare l’attenzione. Quella donna finì in prigione per questo. Solo per aver buttato di là alcune missive. D’altronde le guardie svizzere non potevano sapere cosa contenessero quei pacchi, e quindi la portarono in cella a Stabio, per una notte. Sulla recinzione di confine erano inoltre appese delle campanelle, che suonavano se qualcuno cercava di passare: in questo modo venivano allertate le guardie. Non era per niente facile raggiungere quel confine, per via dei percorsi di montagna».

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